Di solito, quando viaggio, scrivo subito, appena rientrata. Stavolta non ce l'ho fatta.Non ce l'ho fatta perché è difficile, perché le parole non riescono a dire, non riescono a contenere la scintillante meraviglia di quei colori, quei suoni, quegli odori. Ancora oggi, dopo mesi, le immagini faticano ad arrivare sulla punta dei pensieri per essere catturate, tradotte, traslocate nei confini della materia parlata e pensata. E ti rendi conto del limite. Le parole non ti portano sempre dove vuoi. A volte ti lasciano a piedi, come una macchina vecchia.
E io, io sono rimasta qui, in mezzo alla strada, a corto di vocaboli, consonanti e punti. Provo a fare l'autostop. Oppure mi fermo sul ciglio, con i pensieri arruffati, e ci provo.
E penso che, alla fine, a volte è bello non riuscire a raccontare.
Ci sono luoghi in cui, davvero, a parlare è solo la solenne, magnifica voce del posto. Ed è una voce che viaggia sul vento, che si appoggia sui raggi del sole e li canta, uno a uno, che si infila in una finestra aperta, di notte, per guardare chi dorme.
Questa voce, in Marocco, danza anche con gli odori, si mescola ai profumi forti che di giorno ti attraversano, ti invadono come un ricordo inatteso, e percorre i souk, sorridendo ai turisti in difficoltà che tentano di schivare il ragazzino che li bracca, li marca, si incolla al loro sudore per venirne fuori con qualche moneta. E poi si incastra, per un attimo, nelle sciarpe indaco appese ai fili, all'interno di vicoli irraggiungibili, accarezza la magia di quel colore magico, misterioso, e poi corre via, corre sulla voce del muezzin che chiama alla preghiera arrivando lontano lontano, in posti che davvero solo l'orecchio di Dio può ascoltare.
Poi arriva sulla piazza di Marrakech, ebbra di colori e di suoni, di quella corte dei miracoli, sgangherata e piena dei cromatismi più audaci, vociferante, urlante, aggressiva. Un'umanità allegra e allo stesso tempo dolente, carica di tutto il peso e di tutta la leggerezza del mondo.
E si ferma, questa voce, si ferma ad ascoltare il dolore della scimmietta incatenata, offesa, umiliata da quel pannolone che vorrebbe farla somigliare a una bambina mentre lei, figlia di terre libere e selvagge, non ha più padre né madre, esposta ai crudeli click delle macchine fotografiche che se la portano a casa come un trofeo, mentre con i suoi occhietti tristi afferra il collare che la strozza e fissa un padrone indifferente. Indifferente alla sua malinconia, al suo stordimento sotto il sole cocente sostituito, verso sera, dai tanti piccoli soli dei flash che si accaniscono sul suo corpicino.
Che strazio. E la voce lo sa. Lo conosce. Come conosce bene la sofferenza di ogni animale di Marrakech. Dei suoi gatti senza ventre e dei suoi asini sdentati, con gli occhi sbarrati per la sete mentre trottano in giro trasportando turisti obesi e sbattendo gli uni contro gli altri.
Non c'è spazio per la pietà, qui.
Gli occhi degli abitanti di Marrakech sono liquidi, ci scivoli dentro ma non anneghi perché non sono oceani ma pozzanghere. Sguardi obliqui, che non ti trafiggono ma passano oltre, come se tu fossi aria e non carne.
Non sono occhi buoni. Forse, non sono neanche cattivi. Di sicuro, sono furbi, sono occhi che sanno della vita e di come spremerla, succhiarne il midollo, prendere i pezzi del sole al mattino e catturare le stelle ogni notte per spremerne via tutta la polpa di luce.
Qui la vita è magia e crudeltà, incanto e orrore, e si rinnova, ogni giorno, con il canto del muezzin all'alba.
Marrakech si perde nel vociare dei suk, nel sudore degli artigiani, negli uomini che ti artigliano un braccio per portarti nel loro negozio mentre tu, braccata come una preda, ti difendi allo stremo ma sai che loro, di nuovo, sono più forti, hanno quell'ostinazione implacabile che fa del loro commercio una croce, un tormento per chi ama solo guardare, sfiorare gli oggetti e portarne il ricordo altrove. Comprare, barattare diventa quasi un atto violento, come violento è il sole di mezzogiorno. C'è qualcosa di crudo, di aspro, in quella contrattazione interminabile in cui loro ridono, si divertono mentre tu, sfinita, cerchi la cosa meno costosa pur di andartene e farli contenti.
Trattare, per loro, è un gioco. Ma per un occidentale diventa un braccio di ferro, una lotta straniante. Noi siamo abituati a conoscere il valore monetario di un oggetto, scegliere, andare via. Nei souk invece l'eterno gioco diventa sorrisi, tè, domande e risposte che inseguono nuove domande.
C'è gentilezza. Ma è una gentilezza commerciale. Un sorriso che ha sempre uno scopo in agguato, una bocca aperta su denti che vogliono prendere, non elargire.
E questo ti fa sentire sola, molto sola. Ma ti dà anche forza, e ti spinge oltre i limiti della consueta confidenza in questo gioco straniero.
E se a Marrakech ti perdi sempre, ti perdi e alla fine ti trovi, torni sempre alla grande piazza che è un po' come il tuo nord interiore, appena fuori dalla città è tutta una celebrazione cromatica di spazi dipinti fra l'azzurro del cielo e l'ocra delle colline, in cui sfilano fiori di mille colori e l'erba verde di boschi irreali, quasi fossero quadri appena finiti.
E a bocca aperta, respiri stupori e incantamenti fino ad arrivare lì, alle porte del deserto, in cui nulla assomiglia più a nulla. C'è solo il vento che soffia, quel vento che qui mormora di cose lontane e vicine, di nomadi e mistici, viaggiatori solitari e carovane, berberi con le loro belle canzoni antiche e i loro occhi che pungono. Sono diversi, i berberi. Hanno occhi profondi che si dilatano sull'infinito, e la loro faccia scura che narra di misteri remoti, di tende di stelle e di sabbia, di notti che si accendono sulla vita illuminandola con un arcano sapere, che viene dal primo dei giorni.
E tutto intorno il rosso e l'ocra. Silenzio e colore. Perduto, per sempre, nell'attimo in cui ti sembra di infilarti nell'eternità. E' solo un attimo, e vola via rincorso da vento.
Ma si fissa, per sempre.
Come fa Marrakech, come fa il Marocco. Stanno lì, nel futuro dei giorni. E sanno che non ti non lasceranno. Non ti lasceranno mai più.
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