La mia Istanbul - Francesca Pacini
La mia Istanbul - Francesca Pacini

Istanbul, fra me e te

moscheaE così sono tornata a cercarti.  Come si fa quando ti  rimane in bocca un sapore sospeso, incompiuto.

Ho capito che tu sei un po’ come me, Istanbul. Mi somigli. Sei terra di frontiera, incrocio di venti, di culture, di tradizioni. Sei in un bivio perenne, sempre divisa fra un oriente mai dimenticato e un occidente adorato, di cui sei invaghita per la vita bella e le promesse di lusso e  divertimento e luccichii. Eppure non riesci a scordarti il silenzio bello dei tuoi vicoli antichi, con le donne immerse nei loro veli e il kajal che disegna il mistero di due occhi che sono porte di terra e di cielo.

Sei un crocevia di contraddizioni, sei fatta di opposti, appartieni a tutti e a nessuno, un po’ come me.  Sempre sul bilico, sempre su un respiro portato via dal vento. Non sei morbida e accogliente come le nostre terre, addolcite da colline che si inchinano in mare, boschi profumati e romantici borghi che sembrano scivolati giù dalle nuvole. Sei invece piuttosto brulla nell’anima, così come lo è la tua terra. Il romanticismo non ti si addice, preferisci il mistero di quei minareti che salutano il mare, preferisci nasconderti, svelarti a poco a poco, come in una danza dei veli, e giri giri giri come un derviscio scombinando bussole e mappe; la tua geografia cambia e si sposta sempre più in là, attraversa, persistente, la tradizione, si riposa nei vapori dell’hamam dove ogni pensiero diventa liquido mentre il cuore della città diventa il cuore di chi si appoggia nelle tue pietre di Acqua e di Fuoco, e il battito diventa lentezza che scioglie il tempo, e  le donne si lavano e si massaggiano fra loro,  fra i sorrisi di certe confidenze femminili che nessun uomo saprà mai penetrare,  guarda come sono potenti anche se il mondo, là fuori, le pensa in condizione inferiore; e invece è lì, negli hamam, che senti tutta la forza del Femminile che custodisce il segreto sapiente dell’Acqua e del Fuoco, e nelle abluzioni divise di uomini e donne giace un’arcana sapienza. Ma come sembriamo ridicoli, noi occidentali, con le nostre arroganze sulla libertà e l’individualismo, e la parità estrema dei sessi che alla fine hanno fatto diventare maschi le femmine e femmine i maschi. Che dignità nelle tue donne velate, che convivono con quelle “moderne”, quelle emancipate, che la sera escono e si truccano e hanno i vestiti all’ultima moda, e sorridono all’uomo piegando la testa all’indietro, mentre i capelli tinti di biondo diventano onde che inseguono l’ultima marea. No, la tua geografia è sempre mobile, vive in una terra di mezzo, mai compiuta verso una direzione precisa.

I silenzi dei tuoi quartieri tradizionali mi incantano, mi seducono, è lì che mi pare quasi di afferrarti e tenerti accanto nel cuore, perché insieme, noi due, sappiamo ammirare il gusto antico che lascia il profumo sottile di origini in cui l’anima si specchia e si riconosce, ma poi scappi, fuggi via e mi lasci la mano che ti teneva vicina, fuggi a cercare le notti scombussolate, le notti ebbre di Taxim, dei quartieri occidentali dove si canta si beve e si gira fino all’alba.

E in quei momenti sei figlia di Manhattan, nei tuoi vicoli di insegne colorate i ristoranti sono in fila  come soldatini che marciano immobili nei muri, e mi ricordi tanto il quartiere latino, mi sembra quasi di toccare Parigi. E ti piace, quanto ti piace questo bel mondo di soldi e potere, sei come una bella donna davanti a un diamante. J’adore Dior. Mai sazia, non sei mai sazia e all’una di notte, a Istiklal Caddesi, la vita brulica, la vita ha fame, prende a morsi sé stessa con voluttà. Ancora, ancora e ancora. The City that never sleeps. Come New York. E in questa confusione mi sento a casa, mi trovo. Mi piace, questa frontiera appoggiata sul mare. Il tuo mare. Mi sono smarrita nel volo dei gabbiani in quell’acqua selvaggia, aperta, Madre di ogni pezzo di terra che qui finisce. Qualche suggestione napoletana serpeggia nelle tue  case arroccate, buttate una sull’altra fino a cadere quasi nel mare. Qui però il mare è diverso, è un mare che vuole rimanere un corridoio in cui, alla fine, nessuno può mai fermarsi davvero; impossibile gettare un’ancora, puoi solo coltivare l’illusione della confidenza, con i pescatori appesi sui ponti giorno e notte, e notte e giorno, a godere dell’abbondanza di pesci. Ma finisce lì. Il mare rimane sempre segreto.

E io, che in un piccolo mare ci sono nata, so riconoscere come cantano le acque di un paese, come suonano, invisibili. E le tue acque, Istanbul, ti vogliono bene perché sanno che il canto vero è quello in cui la voce del muezzin si allunga e muore nei flutti del mare, per rinascere, salata e nuova, e cantare ancora. Nelle luci dei minareti la tua storia conserva la fiamma antica, che convive con la sregolatezza cosmopolita della tua modernità a volte quasi sfrontata. Ma se il tuo Dio convive così bene con la tua voglia di vivere, allora è un Dio buono, che ha capito che il rigore sublime deve essere mischiato alla carne e al sangue, il corpo tuo, Istanbul, non è né sacrificio sacro né grezza materia: è l’incrocio che nel centro di questa ruota trova il suo mozzo nascosto.  E quindi tu sei così, alla fine. Selvatica, indomita, sgangherata. E libera. Libera come i tuoi giorni speziati, come la “santità” del tuo cibo servito con un amore millenario, lento e saporito, che racconta di storie perse nel coito interrotto di uno Starbucks o un Mac Donald. Il convivio è il tuo sangue, il tuo sangue è il convivio. Ed ì lì, a tavola, che la tua gente si guarda negli occhi e canta, conosce ogni canzone suonata, la recita, la interpreta, si mette le mani al cuore e sembra quasi di vedere Nino D’Angelo con le sue canzoni napoletane. E Mario Merola, e le tensioni e gli amori e i drammi appassionati e cantati mimanti bevuti insieme alle parole. Sì, somigli, a volte, al nostro Sud. La tua gente sorride e parla e gesticola e cerca sempre di fregarti se sei straniero, e questo in fondo mi piace perfino un po’ perché se vedo anche l’ombra non ho mai paura che la luce sia finta. E vicino alle mille luci di mille notti appoggiate sul Bosforo le tue ombre si vedono, e mi placano.I sorrisi cortesi dei turchi a volte nascono dal cuore, altre dal portafoglio. Tradizione di commercianti, raffinati affaristi dai quali a volte ti senti portato all’inganno senza riuscire a legarti a nessun albero, come fece invece Ulisse. Anche perché hai pochi alberi, in fondo. Abbondi di case, case case e ancora case, case ovunque dal cielo al mare, su e giù fra strade grandi e piccine.

E la voce magica del muezzin ti ricorda, mia bella signora, libera, divisa tra anarchia e tradizione, che non puoi dimenticare chi ha  dato forma e vita alla tua terra. E nelle moschee, scalza e profana, nascosta vicino alle donne mentre i miei ricci cercavano una via di fuga dal foulard troppo piccolo, mi sono immersa nelle sconosciute profondità della tua religione, rapita da una voce ipnotica più dura della tua lingua (che il turco è meno aspro dell’arabo) e ho di nuovo cercato la tua mano, e il tuo cuore.

Arrivi e fuggi, imprevedibile. Mi piaci.

Guardando il mare, con il vento che portava i miei pensieri, ti ho sentito mia. Perché ho sentito la tua malinconia, nascosta fra sorrisi e colori e danze. Ho sentito la malinconia che abita ogni anima selvaggia che si ribella sempre a qualcosa e sposta il confine più in là, per ritrovarsi senza confini e direzioni.

Ho seguito questa malinconia, l’ho vista viaggiare nel vento insieme ai gabbiani. Arriva, sbatte le sue ali fermandosi un attimo, e se ne va via. Tutto, in fondo, si separa e ci accompagna mentre noi siamo al centro, come accade a me, in mezzo alle tue sponde che osservo dalla barca. Il Corno D’oro è come un corridoio dell’anima. Lei è lì, al centro, mentre  nella vita costeggiamo gli opposti, i nostri Orienti e Occidenti, i nostri passati e futuri, le nostre albe e i nostri tramonti. E ci sono, ai bordi, le tristezze e le piccole gioie. C’è tutto, in un mare che sempre scorre con le sue onde che non tornano mai indietro e nascono e muoiono e muoiono e nascono, come  le nostre vite.

E  a volte si naviga senza conciliare mai gli opposti, e si rimane sempre in questo bilico, in questa sospensione senza nomi e definizioni.

A me e a te accade così. E allora seguiamo il nostro destino. Scivolerà in mare e sarà scortato dalle onde, fino a dove non sappiamo e non vogliamo sapere.