“Internetime dokumna!”, “Don’t touch my internet!”. Questo lo slogan che ha chiamato a raccolta, sabato scorso a piazza Taksim, centinaia di manifestanti. E, stavolta, al centro della protesta non c’era un parco, ma internet.
La commissione parlamentare ha infatti approvato un progetto di legge con il quale il governo potrà esercitare un controllo fortissimo su tutta la rete.
La proposta, preparata dall’AKP (il partito di ispirazione islamica al governo), comporta, secondo le associazioni e i comitati cittadini in rivolta, il serio rischio di censura nei confronti dell’unico mezzo di informazione davvero libero che, non a caso, è stato lo strumento privilegiato di comunicazione e diffusione delle informazioni durante la rivolta di Gezi .
La scorsa estate, il Primo ministro Erdoğan aveva condannato l’uso dei social paragonando twitter alla “peggior minaccia di una società”. Ma è proprio grazie alle notizie, foto e video pubblicate sui social che gli attivisti turchi hanno scavalcato il bavaglio dei media portando l’attenzione su quanto stava accadendo.
La rete e le manifestazioni di Gezi Park sono collegate a doppio filo. Internet ha avuto un ruolo centrale nelle proteste. Lo sanno le opposizioni, lo sanno i manifestanti. E lo sa il governo.
Sabato scorso la gente, in piazza, si è quindi ribellata ad un rafforzamento del controllo sul web. Quel web che oggi, nelle società di tutto il mondo, è sintomo e simbolo, più di ogni cosa, della libera espressione di una democrazia, agevolata da una informazione in tempo reale capace di anticipare le notizie filtrate dei media tradizionali.
Dunque, un tema particolarmente scottante in una Turchia scossa, dopo i fatti di Gezi, dagli eventi che hanno visto protagonisti diversi esponenti del governo, travolti dallo scandalo che ha portato a un forzato rimpasto nell’esecutivo.
Se la proposta diventerà legge, al governo sarà possibile impedire l’accesso ad alcuni siti web senza passare per la magistratura.
Le aziende che ospitano i siti web dovranno inoltre aderire a un nuovo organismo, posto sotto la verifica diretta del ministero, che attraverso una banca dati potrà controllare, per due anni, le pagine visitate dagli utenti turchi.
Decisamente troppo, per un paese già in netta difficoltà nell’espressione libera delle divergenze. E così, il 18 gennaio, a Istanbul come in altre città, compresa la capitale Ankara, i cittadini si sono riuniti per manifestare.
Era dai tempi di Gezi che a piazza Taksim non si vedeva un raduno di simili proporzioni. In piazza sono scesi a migliaia.
Non sono mancate le solite scritte umoristiche che, come sempre, caratterizzano queste manifestazioni. Alcuni hanno mostrato cartelli che facevano il verso al premier ridicolizzando la sua pretesa di controllare la rete: “tayyp:// ”, recitavano.
Ma dietro gli scherzi c’era molta, moltissima tensione e timore. Youtube, il quinto sito per numero di visite nel paese, in passato è già stato bloccato più volte. L’hashtag dell’evento, #18Ocak18DeSokaklara, lanciato in rete, ha immediatamente raccolto moltissimi accessi e condivisioni mentre in piazza, la polizia, come al solito disperdeva la folla ricorrendo a un massiccio uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Non sono mancati gli arresti, naturalmente.
E tuttavia quella folla radunata a Taksim non era violenta, ancora una volta era la popolazione civile: uomini, donne, ragazzi che hanno chiesto rispetto per la loro libertà, per il loro spazio privato, individuale.
Non credono alla scusa di un controllo maggiore sulla pedofilia, per tutelare i minori, credono invece che l’azione moralizzatrice di Erdoğan continui a usare l’Islam per rafforzare, in realtà, il potere del premier. Che in questo modo avrebbe una scusa “legale” per mettere a tacere voci scomode, dissidenti. Specialmente ora che si avvicinano le elezioni amministrative e nell’AKP la tensione sale dopo la scissione di Fetullah Gülen.
Di certo, nelle prossime settimane si tornerà a discutere di web e dei provvedimenti che, in un momento delicato come questo, somigliano davvero a una censura.
Il lungo weekend in piazza, intanto, è proseguito domenica 19 gennaio per ricordare l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso sette anni fa davanti al palazzo del giornale che dirigeva, il settimanale Agos, da un nazionalista diciassettenne, Ogün Samast, condannato a più di ventidue anni di carcere.
Gli amici di Hrant però, l’organizzazione che ogni anno promuove la commemorazione, lamenta la protezione, da parte dello Stato, dei responsabili che avrebbero ordinato l’esecuzione. Samast era solo il braccio operativo di un’azione che coinvolgerebbe esercito, apparati statali, servizi segreti.
Quella che è andata in scena ad Istanbul è una marcia molto sentita dai cittadini, scortata dallo slogan “Siamo tutti Hrant Dink, siamo tutti armeni”, oggi come allora, come nel giorno dei suoi funerali, quando di più di centomila persone si ritrovarono per l'ultimo saluto.
Il corteo è sfilato in modo pacifico (ma con picchi di alta intensità emotiva), partendo da Taksim per raggiungere la sede di Agos, poco distante. Una giornata della memoria che commuove, emoziona, come testimonia su facebook la scelta dell’immagine del profilo di molti turchi che, in questa data, hanno deciso di mostrare la foto di Hrant Dink a terra, coperto da un lenzuolo. “Siamo tutti Hrant Dink”, è il messaggio che circola ovunque.
In un paese in cui la questione del genocidio armeno rimane un tema scottante, l’assassinio di Hrant Dink ha turbato la coscienza civile. Il giorno dei suoi funerali, un popolo scosso e indignato aveva riempito le strade.
Hrant Dink ha lottato per promuovere la democrazia nel suo paese, focalizzando il suo lavoro sui diritti civili degli armeni e di altre minoranze. Ha sempre cercato di creare un ponte fra armeni e turchi, non risparmiandosi mai per dare vita a un dialogo sincero, votato alla tolleranza reciproca.
Tutta la sua esistenza è stata segnata dalla volontà di approdare ad una soluzione pacifica, rimanendo fermo, però, sulle posizioni riguardo alla realtà del genocidio, che ai suoi occhi non poteva essere negata. Un fatto da superare, auspicava, portando ambo le parti a un nuovo futuro lasciandosi dietro gli errori commessi (senza risparmiare critiche anche ai rappresentanti della comunità armena).
Alcuni suoi articoli furono considerati un insulto all’identità turca, e condannati. Hrant fu oggetto di numerose minacce di morte ma non tacque mai, portando fino in fondo il suo lavoro, con coraggio e onestà. Finché un giorno, furono altri a decidere di farlo tacere per sempre.