Il viaggio come ritorno
21 aprile 2013
A volte il viaggio non è una partenza ma un ritorno. Si torna a noi stessi, si torna nei luoghi che ci appartengono. Sono i misteriosi richiami di geografie con le quali condividiamo un'affinità elettiva che le parole, a volte, non sanno dire.
Istanbul è una di queste. Istanbul, la Città delle città. La mia città.
Fra poco è giugno. E a giugno, sul Bosforo, il mare si tinge dei colori più belli. A giugno i traghetti saplano anche di notte e girano fra le acque. scortati dalle stelle. Com'è bella, Istanbul, nelle noti d'estate. Disarma la ragione e lascia vivere solo le emozioni a cavallo del tempo, in un tempo che non è più tempo, seguito dai minareti che indicano la via per il cielo.
Fra poco, a giugno, salperò su uno di quei traghetti. E, tra l'Asia e l'Europa, mi sentirò a casa.
Istanbul, fra me e te
E così sono tornata a cercarti. Come si fa quando ti rimane in bocca un sapore sospeso, incompiuto.
Ho capito che tu sei un po’ come me, Istanbul. Mi somigli. Sei terra di frontiera, incrocio di venti, di culture, di tradizioni. Sei in un bivio perenne, sempre divisa fra un oriente mai dimenticato e un occidente adorato, di cui sei invaghita per la vita bella e le promesse di lusso e divertimento e luccichii. Eppure non riesci a scordarti il silenzio bello dei tuoi vicoli antichi, con le donne immerse nei loro veli e il kajal che disegna il mistero di due occhi che sono porte di terra e di cielo.
Sei un crocevia di contraddizioni, sei fatta di opposti, appartieni a tutti e a nessuno, un po’ come me. Sempre sul bilico, sempre su un respiro portato via dal vento. Non sei morbida e accogliente come le nostre terre, addolcite da colline che si inchinano in mare, boschi profumati e romantici borghi che sembrano scivolati giù dalle nuvole. Sei invece piuttosto brulla nell’anima, così come lo è la tua terra. Il romanticismo non ti si addice, preferisci il mistero di quei minareti che salutano il mare, preferisci nasconderti, svelarti a poco a poco, come in una danza dei veli, e giri giri giri come un derviscio scombinando bussole e mappe; la tua geografia cambia e si sposta sempre più in là, attraversa, persistente, la tradizione, si riposa nei vapori dell’hamam dove ogni pensiero diventa liquido mentre il cuore della città diventa il cuore di chi si appoggia nelle tue pietre di Acqua e di Fuoco, e il battito diventa lentezza che scioglie il tempo, e le donne si lavano e si massaggiano fra loro, fra i sorrisi di certe confidenze femminili che nessun uomo saprà mai penetrare, guarda come sono potenti anche se il mondo, là fuori, le pensa in condizione inferiore; e invece è lì, negli hamam, che senti tutta la forza del Femminile che custodisce il segreto sapiente dell’Acqua e del Fuoco, e nelle abluzioni divise di uomini e donne giace un’arcana sapienza. Ma come sembriamo ridicoli, noi occidentali, con le nostre arroganze sulla libertà e l’individualismo, e la parità estrema dei sessi che alla fine hanno fatto diventare maschi le femmine e femmine i maschi. Che dignità nelle tue donne velate, che convivono con quelle “moderne”, quelle emancipate, che la sera escono e si truccano e hanno i vestiti all’ultima moda, e sorridono all’uomo piegando la testa all’indietro, mentre i capelli tinti di biondo diventano onde che inseguono l’ultima marea. No, la tua geografia è sempre mobile, vive in una terra di mezzo, mai compiuta verso una direzione precisa.
I silenzi dei tuoi quartieri tradizionali mi incantano, mi seducono, è lì che mi pare quasi di afferrarti e tenerti accanto nel cuore, perché insieme, noi due, sappiamo ammirare il gusto antico che lascia il profumo sottile di origini in cui l’anima si specchia e si riconosce, ma poi scappi, fuggi via e mi lasci la mano che ti teneva vicina, fuggi a cercare le notti scombussolate, le notti ebbre di Taxim, dei quartieri occidentali dove si canta si beve e si gira fino all’alba.
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