I curdi di Suleymanyie
- Dettagli
- Giovedì, 08 Agosto 2013
8 agosto 2013
In un pomeriggio invernale scandito da un cielo di gesso che libera fiori di neve grandi come chicchi d’uva, incrocio un gruppo di ragazzini che si tirano addosso palle di ghiaccio. Hanno addosso vestiti un po’ trasandati in cui tuttavia alcuni dettagli svelano la premura di mani amorose che hanno cercato di combinare i colori, incastrandoli fra loro come pezzi di un puzzle in cui batte un cuore. La gioia scarmigliata contamina anche le donne che escono fuori al freddo e si uniscono alla guerra di neve, dimenticando il pudore davanti alla straniera che si ferma e li osserva con la stessa timida circospezione di un’ospite sconosciuto aggiunto per caso a una cena.
I ragazzini sono una banda compatta, maschi e femmine rapite dall’eccitazione che scalda l’aria attraversata da razzi di ghiaccio che decollano da manine sveltissime, mentre tutti girano come trottole senza direzioni e confini.
Guardo ancora i loro occhi e mi accorgono di leggerci storie che superano i limiti di una lingua diversa. E penso che la vera Babele non è nel linguaggio ma nella testa delle persone, negli steccati delle paure, dei pregiudizi con cui affrontiamo il “diverso”, privandoci di insospettate ricchezze.
Fra loro c’è Aleyna, una bambina curda che non supera i cinque anni, i capelli divisi in codine e la faccia sgranata sulla mia macchina fotografica con la quale si diverte a scattare fotografie senza logica e senso, girando intorno a se stessa come un derviscio. Sono belle, le sue foto: la vera arte nasce in fondo così, da un impulso caotico, da un disordine privo di schemi. Forse è per questo che in molti candidati alle suggestioni dell’arte la tecnica finisce per uccidere l’ispirazione. Non si impara, il talento. E non si compra, come l’amore.
Aleyna ruota e ride, ride e ruota, impegnata a catturare il mondo in frammenti . Somiglia a un cacciatore di farfalle mentre insegue le immagini che le svolazzano intorno a caso, poggiandosi sui fiori della sua gioia ebbra di vita. E’ felice per quell’oggetto che stringe a sé come il più prezioso dei tesori.
Gli altri bambini si dispongono in cerchio e mi sorridono trafiggendomi il cuore.
L’allegria di Aleyna esplode come botti a capodanno, prosegue, incalza, contamina i passanti, trascina la madre nella sua felicità.
Una macchina fotografica diventa un mondo, un luogo avventuroso di scoperte da trattenere il più a lungo possibile perché lei in fondo sa, sa che la straniera deve portarsi via la sua catola delle meraviglie. E invece la meraviglia sei tu, Aleyna. Sono i tuoi occhi che sembrano una luna piena, le mani agili come coriandoli, il sorriso fiducioso in cui la vita è sempre e comunque speranza. La meraviglia è il tuo fare infantile che si mescola a un guizzo adulto nascosto qua e là. E’ il modo in cui apri il mio ombrello di plastica azzurra e ti ci perdi dentro, in gioco che si incrocia perfettamente con la macchina che tieni in mano.
Me la riprendo, quella macchina, lasciando però una promessa a tua madre, sigillata in una lingua di gesti che tentano di versare il cuore nelle mani che stringo nel tentativo di farle capire.
Tento di regalare i soldi che permetteranno l’acquisto del magico oggetto ma la donna respinge la mia offerta con la ferma gentilezza di una dignità che, nel nostro mondo, abbiamo dimenticato, sempre pronti ad arraffare, a prendere, a contrabbandare, tesi verso l’ottenimento senza fatica.
Mi guardano, madre e figlia, salutandomi con le mani arrampicate sulla cima dell’ultimo sorriso mentre mi incammino sulla discesa, in direzione di Eminönü. Ho voglia di mare. Me ne vado seguita dai ragazzini più grandi, scendiamo insieme alcuni scalini schivando le insidie del ghiaccio. Tutto intorno, l’erba di cotone si arrampica fini ai muri di case semidistrutte. Malgrado la povertà evidente si respira un’atmosfera di pace, avvolta da un calore che spezza qualunque lingua di ghiaccio.
I bambini mi fanno cenno, invitandomi a fotografarli. Si dispongono sui gradini avvolti nelle sciarpe e puntano lo sguardo verso un orizzonte che sembra infilato in uno spazio senza tempo, gli occhi serissimi, lontani, affilati come spilli, la bocca seria in cui scompare il sorriso dell’infanzia , trasformato in una linea perfetta, geometria di voci adulte e remote.
Sembrano statue di sale incorniciate dal bianco che continua a cadere. Non stanno posando, non fanno “facce da fotografo” , come cantilenava la voce del film di Werner: nella loro immobilità perfetta sono spontanei, raccontano se stessi, la voglia di crescere, lo spazio fragile tra il mondo infantile e quello dei grandi che a un certo punto si assottiglia come una porta corrosa da un tempo precoce su cui sono passati, malgrado la giovane età, molteplici inverni e arsure estive.
Sono in cerca della loro storia, quella che scriveranno da grandi. Eccoli, piccoli adulti imbacuccati nei vestiti colorati, incuriositi dalla straniera con la macchina fotografica. Gliela consegno per lasciarli giocare ancora un po’, e di nuovo il sorriso di bimbo si allarga fino agli estremi del mondo mentre ci raduniamo in gruppetti per fotografarci a vicenda. Alcune donne si fermano, sorridono. “Kurdish”, dicono indicando i bambini e se stesse. Curdi, l’unica parola che riesco a capire. Curdi. Un suono senza terra.
Il suono di un popolo privato del diritto all’indipendenza, una ferita sparsa nelle geografie di altri, come la sua gente, la gente che vive sempre come un’eterna inquilina di troppo.
Mi vengono in mente alcuni versi di Hikmet, il poeta turco che amo da sempre, che si trovano nella lettera a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all'uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzitutto ama l'uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell'animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell'uomo”.
Alcuni sono condannati, invece, a vivere per sempre come inquilini. Sono coloro ai quali la terra è stata negata, e forse è questo che riassumono quei piccoli sguardi adulti, seri: la gioia di credere ancora al mare e alla terra sentendo però allo stesso tempo tutta la tristezza dell’uomo. Ma la loro è una malinconia fugace, sottile come un sussurro che increspa il mare; sta nella pelle, respira attraverso i pori senza mai invadere la vita di cui diventa l’ombra disegnata nei giochi di luce. Perché conoscono il sapore speciale dei momenti piccoli come spicchi di sogni rimasti sulla soglia del giorno. Episodi ordinari che accadono ogni giorno e di cui sanno ancora stupirsi.
Roger waters difende la protesta di Takism e Gezi park
- Dettagli
- Martedì, 06 Agosto 2013
5 agosto 2013
Another brick in the wall.
E un altro, e un altro ancora. Ma su un muro diverso. Il muro della giustizia, della solidarietà. Sempre, finché non sarà costruita una democrazia vera, solida, sana.
Roger Waters, a Istanbul, si schiera. Come tanti, famosi e non.
Impossibile non farlo. Lo scempio della polizia continua, la brusca aggressione alla libertà di parola miete vittime ogni giorno. A volte sono giorni gridati, che finiscono sulla stampa per arresti e uso di gas. A volte sono giorni silenziosi, fatti di drammi quotidiani, di incursioni della polizia che passano quasi inosservate ma che, costantemente, minano il diritto alla protesta.
Siamo liberi, tutti, di protestare. Ovunque. Non ci sono cordoni a delimitare i nostri spazi, se non usiamo violenza.
E siamo liberi di cantarla, la nostra protesta.
Rogers Waters è uno che se ne intende, di rivoluzioni. La sua, insieme a quella di tutto il gruppo, è stata una vera rivoluzione musicale, che ha cambiato per sempre un certo modo di suonare e cantare.
Nessuno scorda i Pink Floyd. Sono sempre lì, come il sole che nasce al mattino.
Conosce bene, Waters, la forza delle parole, dei gesti, dei suoni. Ci gioca, li lancia e loro rimbalzano nell’aria, si mescolano ai cori dei partecipanti, e tornano sul palco.
Taksim everywere. Shine on you crazy diamond. Taksim resi stance. Wish you were here. Tayyp, istifa. Help become comfortably numb. Together against fascism. Hey you, sitting out there in the cold, can you hear me? Tayyp winter is coming. We don’t need no education, we don’t need no thought control.
Suoni e parole di libertà. Un sapore meraviglioso, quello della libertà. Un qualcosa a cui tendere, sempre.
L’accusa alla polizia è stata chiara, netta, determinata. Waters ha parlato in turco, e ha reso omaggio a chi non c’è più.
Mi ha commosso, vedere i nomi e le foto dei ragazzi morti campeggiare nel muro. Sono loro, I mattoni del muro. Another brick in the wall. Un muro diverso, però. Il muro della solidarietà, della resistenza, della voglia di un futuro democratico, un futuro migliore.
Ethem Sarısülük, another brick in the wall
Ali İsmail Korkmaz, another brick in the wall
Abdullah Cömert, another brick in the wall
Mehmet Ayvalıtaş, another brick in the wall
Mustafa Sarı, another brick in the wall.
Another brick in another wall. The wall of solidarity, the wall of hope.
Democratica polizia?
- Dettagli
- Giovedì, 25 Luglio 2013
24 luglio 2013
Erdogan difende l'operato della polizia. E compie un grosso errore. A Istanbul, dalla fine di maggio, è stata usata una quantità spropositata di gas lacrimogeno, per non parlare delle sostanze urticanti (jenix) usate nei cannoni ad acqua, delle persone picchiate, lasciate in carcere con le ossa fratturate, senza soccorso medico. Il quotidiano Hurryet Daily News riporta alcune frasi gravissime in cui Erdogan loda la polizia perché "ha risposto con ampia, democratica pazienza agli incidenti accaduti nelle città turche".
Ampia, democratica pazienza? Parliamo di violazioni importanti dei diritti umani, di lanci avvenuti a pochi metri di distanza dagli attivisti, che hanno provocato ferite gravissime. Di persone arrestate, come il nostro reporter, semplicemente perchè "c'erano", e magari stavano facendo il loro lavoro.
Non ho visto nessuna "democratica pazienza" a Istanbul, io.
Invece ho visto cosa è capace di fare, la polizia turca. E ho visto con quale esagerazione ha risposto a semplici raduni.
Una polizia che gassa mezza città, trasformandola in una nube tossica, non è una polizia che risponde in modo paziente.
Ma, quello che è ancora più grave, è la difesa di Erdogan, e duqnue la implicita autorizzazione, anche in futuro, a usare Toma, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e manganelli.
Intellettuali di tutto il mondo stanno protestando.
Dobbiamo farlo tutti, anche noi.
Chi sono i chapuller
- Dettagli
- Martedì, 23 Luglio 2013
Chi sono i çapulcu
22 luglio 2013
In molti mi chiedono perché mi sono schierata con i famosi çapulcu.
Per chi mi conosce, non è difficile immaginare i motivi. Sono sempre stata dalla parte dei ribelli, dalla parte di quelli che combattono per un mondo migliore. Perché sono una sognatrice anche io. Una romantica, probabilmente. Una che non smetterà mai di pensare che bisogna battersi per le idee.
Difendo la rivolta di Gezi Park perché l’ho vissuta sulla pelle, più volte. Ho parlato con i miei amici coinvolti, e con quelli che invece difendono Erdoğan. Si cerca sempre di capire tutte le sfaccettature della realtà, vagliando le ipotesi, cercando i bianchi e i neri, capovolgendoli, invertendoli.
Ma davanti alla ferocia della polizia, il nero diventa ancora più nero. E’ l’oscurità di chi usa la forza bruta contro una popolazione che si ribella in modo pacifico.
E che a volte usa perfino l’ironia. Ho letto scritte, in turco, che il cuore gentile di un amico ha tradotto per me.
Alcune riassumono perfettamente lo spirito di questa rivolta. “Lo spray al peperoncino rende la tua pelle più bella”. Ecco, rispondere con lo scherzo alla violenza. Un segno di grande civiltà.
Non si tirano pietre, qui, e non si incendiano auto e negozi.
Si resiste, in modo dignitoso, consapevole. E straordinariamente forte.
C’è un’energia, in questa Istanbul che vuole cambiare, capace di entrarti addosso e non lasciarti mai più.
La senti perfino mentre fuggi dai cannoni ad acqua e dai gas lacrimogeni. Ci si aiuta, si è complici, solidali.
Come sono ridicoli, i poliziotti, quando entrano nelle vie laterali di istiklal a cercare, con i loro squadroni, i çapulcu. Perché i çapulcu non sono terroristi armati con il viso nascosto. I çapulcu sono i negozianti, i clienti seduti ai bar, gli avventori. I çapulcu sono gli uomini e le donne che camminano passeggiando nella folla.
I çapulcu sono io, sei tu, siamo tutti noi.
Devono arrestarci tutti, abbatterci tutti, bruciare i nostri libri, piegare le nostre idee che, come diceva Falcone, uno dei nostri, pochi, veri eroi, continueranno comunque a camminare sulle gambe degli altri.
I çapulcu sono i cittadini che si sono svegliati, quelli che non vogliono un capitalismo mascherato da Islam che imponga loro le cose. Non bisogna cercarli nei loro rifugi, ci camminano accanto, ogni giorno.
Stanno cercando di dare un senso profondo alla loro rivoluzione.
Quando i poliziotti li cercano, sorrido quasi. Sono nascosti fra noi, perché siamo noi.
Noi che poco prima fuggivamo dal gas, e che torneremo a fuggire domani. Ma che leggiamo, ci informiamo, cerchiamo di usare le parole e non i muscoli, come loro, come i poliziotti.
I çapulcu hanno un’anima diversa l’una dall’altra e nelle loro differenze riconoscono la bellezza della diversità.
I çapulcu sognano un domani migliore. Un domani in cui si sia libertà di parola, in cui la stampa possa scrivere quello che vuole, in cui i gay possano camminare accanto ai religiosi senza sentirsi emarginati, in cui non ci siano imposizioni ma decisioni corali, in cui la polizia torni a fare il suo lavoro senza massacrare, arrestare innocenti, lanciare gas su mezza città solo perché qualcuno la pensa diversamente
Li ho visti, i çapulcu. E mi sono sentita una di loro.
Gezi Park e la rivolta di Taksim. Cronaca di sabato 6 luglio 2013.
- Dettagli
- Mercoledì, 10 Luglio 2013
In principio fu un albero. Poi quell’albero è diventato una foresta, e quella foresta un pianeta.
Quando l’ho scritto, a soli quattro giorni dall’inizio della rivolta di Gezi, non ero sicura che sarebbe stato così. Ma avevo fiutato qualcosa, lo avevo sentito nell’aria. E infatti, è solo l’inizio.
Questo è l’incipit di una storia che si sta scrivendo sulla pelle di chi la vive.
Tornata di nuovo da Istanbul, dopo un mese da quelle giornate, posto una serie di foto bellissime pubblicate dal Guardian.
Narrano i giorni di Gezi, hanno la forza del racconto fermato nel tempo immobile.
Ci sono i poliziotti che sparano gas e cannoni ad acqua, i bambini con le mascherine, le donne che fronteggiano la violenza della polizia. Ci sono frammenti della storia che sta cambiando la Turchia.
C’è quello che ho visto sabato 6 giugno, quando ero lì anche io.
Ma le mie foto non sono ancora pronte, sono una che ama i rullini vecchia maniera, quelli che tolgono nitore alle immagine e le fanno volare verso il cielo del sogno.
Pochissimi scatti fatti con la mia digitale. Uno di questi, è quello che apre questo racconto.
Quando mi imbatto nelle foto del Guardian mi rendo conto di come restituiscano esattamente quell’attimo. Le condivido su facebook. Occupy Gezi, Taksim Solidariety. Sono realtà, ormai. Non sono più soltanto raduni spontanei.
Poco dopo, sulla chat, mi raggiunge Nejat. Ci siamo conosciuti sabato, in un vecchio negozio di macchinette fotografiche usate. Nejat ha vent’anni e un’aria gotica deliziosa: pallido, dinoccolato, magrissimo, con ossa di vetro, è un gran sognatore.
Si vede subito. Ha in mano una Zenit. Una di quelle macchine che non avevano neanche il riavvolgimento elettrico. Pochi, fra noi, ricordano la levetta da girare freneticamente fino allo scatto che indicava il termine dell’operazione. Un gesto perduto, come perdute sono molte cose nel tempo. Siamo lì, fra vecchie lenti, obiettivi, flash e rullini. Non trovo un altra Chinon, uguale a quella che mi hanno rubato, ma compro una Zenit, anche io. Le macchine fotografiche russe sono come i loro proprietari: cocciute, d’acciaio, resistenti alle bufere, al freddo, al gelo. Penso ai colbacchi, ai servizi segreti, agli Zivago e agli zar. Qui non nevica, fa un caldo infernale. Ma la Zenit è la macchina adatta.
Nejat scatta fotografie sognando un mondo migliore.
Ecco, Nejat,forse qui, nella tua città, adesso, stanno provando a costruire un mondo migliore.
Lui non vuole venire alla manifestazione delle sette di sera, a Taksim. È titubante.
Sa che vuol dire essere segnalati dal governo, sa come questo può compromettere il suo futuro.
Ma non resiste al richiamo di Gezi. Non resiste alla voglia di esserci.
Andiamo insieme, ma subito veniamo separati dalla folla, dalla gente in corsa. Non sono neanche le sette e Istiklal è già percorsa dai Toma, i blindati che sparano cannoni ad acqua, e dai gas lacrimogeni. Ci dividiamo fuggendo. Io mi riparo in un negozio, Nejat finisce altrove. L’ultima immagine che ho di lui è la sua figura magra magra arrampicata su uno scalino, intenta a scattare una foto al blindato che si avvicina mentre intorno a lui la gente scappa.
Basterebbe un soffio, a buttarlo giù. Un soffio leggero come un sussurro. Invece sta per arrivargli addosso un cannone ad acqua. Mi infilo nel primo negozio insieme a donne e bambini. Chiudono la saracinesca ma ecco che un gas lacrimogeno striscia fino all’interno. Mi colpisce gli occhi, i polmoni. Brucia, brucia tutto. Ho la gola in fiamme. Le lacrime che mi scendono sulle guance sembrano pioggia acida. Vedo un bambino in braccio a sua mamma che strilla, con gli occhietti chiusi. Un ragazzo, un attivista, gli spruzza addosso un liquido bianco. Lo fa con amore, con compassione. Ne spruzza un po’ addosso anche a me. Ci guardiamo, scoraggiati.
Com’è diversa, la realtà, dalle immagini della televisione.
Adesso so esattamente che odore ha il gas, come pizzica sulla pelle, come incendia gli occhi, come blocca il respiro. So che vuol dire chiudersi in un posto e attendere che la furia della polizia passi altrove. So che vuol dire sentirsi improvvisamente tutti fratelli, uniti da un tempo e un luogo che ci ha fatto incontrare nella fuga da questa follia. C’è una solidarietà più potente e invasiva di ogni gas. Entra ovunque. E invece di intossicarti i polmoni, si sistema nel cuore. E non se ne va più. Mette radici forti, forti come quelle degli alberi di Gezi, le stesse radici che adesso tengono uniti alla terra della resistenza tutti i manifestanti, tutti i cittadini in rivolta.
È una solidarietà che sconfigge ogni gas.
Ci guardiamo, fra le lacrime, in una muta comprensione.
Quando il pericolo cessa, esco di nuovo all’aperto. Istiklal Caddesi è adesso una zona di guerra.
Sono le sette di sera e sembra il giorno dopo l’Apocalisse. Fumi, getti d’acqua, e quell’odore nauseante, l’odore del gas. Nelle nebbie irreali i passanti si affrettano. Le divise nere della polizia macchiano il bianco dell’aria, il bianco del gas.
Per tre ore, non farò altro che fuggire in locali e negozi per proteggermi, tornando in strada appena possibile. Gli attivisti sfidano la polizia. Ma lo fanno con le parole. Non usano armi.
Cantano. Taksim ovunque. Sì, Taksim è ovunque. Taksim è in ognuno di noi. Taksim è ovunque ci si ribelli al potere, al dominio, all’autorità. Taksim è la scintilla che infiamma l’anima.
I poliziotti passando veloci, con scudi, maschere antigas e manganelli. Mi avvicino e li fotografo.
Non mi dicono nulla.
Fanno paura. Hanno facce cattive, come quelle che vedi nei film. Mi sforzo di pensare a Pasolini e a Valle Giulia, ma non mi aiuta. Rimango così, con le immagini degli orchi cattivi.
Perché cattivi, loro, lo sono davvero. Stanno sparando gas in tutta la zona. Una furia inarrestabile che intossica mamme, anziani, bambini.
Piazza Taksim e Istiklal corrispondono, per intenderci, a Piazza del Popolo e Via del Corso.
È come se la polizia invadesse il centro alle sette di sera, di un sabato pomeriggio qualunque, perché alcuni manifestanti si sono spinti verso Villa Borghese, vietata a ogni protesta e raduno.
E allora ecco che arrivano i bulldozer, i gas, i getti d’acqua. Invadono la città e la mettono a ferro e fuoco.
E uccidono i cani, i gatti e gli uccelli. Guai a toccare anche gli animali, a Istanbul. Sono amati, protetti, rispettati. Ma finisce tutto nella mischia, finisce tutto travolto dal gas.
Sembra una guerra. Sento gli spari con cui i bulldozer lanciano contro “il nemico” le loro armi.
I manifestanti indietreggiano, poi avanzano ancora. Un braccio di ferro lento, inesorabile. La polizia li disperde ma loro tornano, tornano ancora.
Davide contro Golia. Ma Davide non cede, non si stanca, non molla.
Quando il gas si dilegua, ecco che dai vicoli riemergono le facce di uomini, donne, ragazzi. E tornano, tornano ancora in mezzo alla strada, e sfidano di nuovo la polizia. Il volto di Atatürk sventola sulle bandiere, con il suo sguardo giovane, giovane come i giovani turchi che vogliono fare la loro rivoluzione. Ma non è la lotta di Atatürk contro Erdoğan. La faccenda p molto più complessa.
Ci sono atei, musulmani anticapitalisti, comunisti, ecologisti, studenti…
Una massa eterogenea, che sfugge a ogni definizione compatta. Sono loro, i çapulcu. Cantano, di nuovo, e ballano. E la polizia, di nuovo, lancia fumogeni.
All’ennesima fuga mi rifugio in un ristorante. Il gas arriva dentro, lo spazio sottile che separa la porta dal pavimento non basta a proteggerci. Gli occhi stavolta non reggono, li chiudo, istintivamente me li stropiccio. Ecco allora che un uomo, un cameriere, mi stacca velocemente la mano dagli occhi, mentre capisco, subito, che cosa ho fatto: ho peggiorato la situazione toccandomi il viso con parti del corpo contaminate.
Troppo tardi. Mi siedo, aspetto che passi. Un dolore assurdo, che fa impazzire. Vicino a me c’è una signora, una giapponese, probabilmente, con gli occhi sbarrati, distesa su una panca lunga. Mi guarda con gli occhi spalancati, la sua faccia è crepata di dolore e di angoscia. Tossisce, si piega in due, come se stesse per vomitare. Deve aver preso tanto, tantissimo gas. Alcuni si coprono il volto con un fazzoletto. Il proprietario del locale mi invita a bere yogurt. Sono tutti gentili.
Quel posto diventa il mio rifugio per almeno un’ora. Quando i Toma, i blindati, passano, spruzzano, colpiscono, scappiamo tutti all’interno. Poi usciamo fuori. Poi di nuovo dentro.
Sembrerebbe quasi un gioco. Un gioco crudele e perverso, come quelli di alcuni bimbi. Ma non è un gioco. È la realtà.
Ogni volta che ci chiudiamo dentro, schiaccio la faccia sul vetro e osservo le pattuglie di polizia che corrono a caccia dei dissidenti. Tutti uniti, fianco a fianco, si muovo come fossero un unico corpo. Hanno scudi, maschere, elmetti, bastoni. Gli altri, i “vandali”, hanno solo le mani nude. E una mascherina per proteggere gli occhi. Alcuni, poi, non hanno nulla davvero. Li sfidano in silenzio, con gli occhi viola e il petto gonfio di nubi tossiche. Li guardano e nei loro occhi vibra tutto l’ardore di una ribellione infinita, con le sue onde che attraversano Istiklal e non si fermano, non si fermano mai.
Mentre bevo un po’ di tè offerto durante l’ennesima aggressione, all’improvviso capisco le parole di Ali, quando, i primi giorni di resistenza, mi diceva che avevano tutti scoperto il senso della solidarietà. Un affetto sconosciuto, finora, una forza ignota che all’improvviso li aveva collegati a uno a uno.
I negozianti che mi offrono riparo non sembrano affatto scocciati con i manifestanti. Anzi, li aiutano, li nascondono, li proteggono. Vedo le loro facce, vedo i loro volti quando passa la polizia.
Il popolo turco, sotto il gas, respira un’aria nuova. Scopre il sapore dell’unione, della lotta per un principio.
Poco mi importa se dietro ci sono i piani internazionali per piegare Erdoğan. Ogni ribellione ha sempre avuto anche strateghi occulti. Non è la prima volta. Non lo sarà mai.
Ma incontro persone che lottano davvero per un’idea di giustizia, di democrazia.
Mi parlano, mi spiegano. Un ragazzo mi invita a comprare gli occhialetti di plastica, quelli da piscina, per fare un bel tuffo nel gas. Me li sistema, con premura.
Una donna, sulla sessantina, mi tira giù la canottiera che si è arrampicata sopra i reni. Sorrido. Perfino a Taksim, nel cuore modernissimo della città, arriva qualcuno e ti copre. Sono le mille contraddizioni della Turchia.
La sera avanza e nessuno retrocede.
Non lo faccio neanche io. Ho perduto Nejat, non lo trovo più. Lo spero al sicuro perché sono iniziati gli arresti.
Decido di lasciare Istiklal per andare da Doğa, che lavora in un locale poco distante. Mi avventuro nei vicoli incrociando poliziotti e manifestanti in fuga.
Il locale è vuoto, naturalmente. Con Doğa parliamo, come sempre. Parliamo molto.
Mi dice una cosa molto importante, dice che capisce, ora, cosa significhi essere accusati di terrorismo sempre e comunque. Comprende il senso comunitario che crea. Mi piace, questa riflessione.
Di certo, questa esperienza mescola e cambia ogni pensiero. Cambia anche me.
Mi allontano nella notte a malincuore. Non voglio essere arrestata. Ho le mie macchine fotografiche. Vengo spesso in Turchia, una volta al mese, più o meno. Ho scritto un libro su Istanbul. Sono iscritta all’Ordine dei Giornalisti. Straniera.
Basta poco, qui, per essere dei terroristi.
A Sultanahmet, dall’altra parte della città, tutto tace, in un silenzio irreale. Questa è Istanbul.
Ma non mi piace, questa atmosfera indifferente. Forse perché ormai ci sono dentro fino al collo.
E in hotel, con gli occhi che ancora lacrimano, penso ai miei amici, alla loro lotta.
Penso a Nejat, che non voleva neanche venire. Mi sento in colpa. Spero stia bene.
Il giorno dopo lascio di nuovo Istanbul insieme a un pezzo di cuore, come sempre.
E finalmente, in chat, mi raggiunge Nejat.
È diventato un çapulcu. Mi scrive ubriaco di ribellione. Felice.
È stato in prima linea fino all’alba, fino al mattino. E, d’ora in poi, ci sarà. Sarà con loro, con gli attivisti.
A un certo punto Nejat sulla chat mi scrive: “La foto del Guardian! Quello sono io!”
Si riferisce a un link che ho appena condiviso.
“Quale, Nejat?” “La numero 5!”
Guardo meglio. È vero. È lui. È quel ragazzo piegato, fra i poliziotti. Quello che sta tossendo, coperto da un fazzoletto sul visto.
Mi racconta di come lo abbiano buttato a terra e di come sia stato salvato da un gruppo di ragazzi che lo hanno tirato via.
Non sono sorpresa. Il filo del destino che mi collega a Istanbul è sempre presente. Nulla è a caso, mai. Nejat doveva incontrarmi, nel negozio di fotografie. E scoprire la sua anima ribelle.
E io dovevo trovare quelle foto del Guardian, e scegliere proprio quelle fra milioni di foto pubblicate sul web.
Funzionano così, i legami sottili tra le cose e le persone, tra i destini degli universi che non conosciamo. E spero che il destino aiuti e protegga tutti quei “terroristi” che si stanno battendo per la democrazia. Inşallah.