Chi sono
“Che ci faccio qui?”
Bruce Chatwin
Scrivo e leggo da sempre e, per fortuna, sono riuscita a farne un mestiere.
Ho iniziato nella redazione romana della rivista Storie, come caporedattore, lavorando anche come editor nella casa editrice Leconte. Mi sono iscritta all’Ordine dei giornalisti, e nello stesso anno, nel nel 1999, sono diventata Responsabile editoriale dell'agenzia letteraria Il Segnalibro, ideando per prima, in Italia, i famosi corsi per redattori editoriali nella formula, rimasta invariata dopo dieci anni, che è stata scopiazzata in tutta Italia. Poi ho fondato Stylos e la rivista online Silmarillon.
Ho scritto e pubblicato un libro "filosofico" sul simbolismo dell'astrologia antica (La ruota degli dèi) e, tanto per non farmi mancare nulla, lavoro come copywriter narrando le aziende attraverso i siti, e mi diverto un sacco come art director perché anche le immagini sono racconti.
Mi interessa la narrazione, in ogni sua forma. Così è nata anche l’idea della Stanza di Virginia, una rivista web dedicata all’approfondimento culturale, mentre Stylos è confluita nell'agenzia Editoria e Scrittura. Non riesco mai a stare ferma, dividendomi tra editoria e comunicazione. Se faccio una cosa sola poi mi mancano tutte le altre. L'importante è usare la creatività, la parola, cercando di fare in modo che la cultura sia coscienza e non esibizione di spocchia, come accade spesso nel mondo intellettuale.
A volte mi sembra una battaglia persa. Ma io non mollo.
Come si inserisce il viaggio in tutto questo?
Da piccola osservavo lo spazio nascosto dalle curve delle colline, sognavo di partire, andare via, seguendo quell’orizzonte, spingendolo sempre più in là, allungando tutti i confini. Sono nata in un posto di mare, quel mare che dà sapore alle cose, libera gli spazi della mente e li tiene aperti.
Ma Senigallia, la mia città marchigiana, mi stava stretta come un maglione infeltrito. Non mi conformavo con i languori della vita di provincia, catalogata, ordinata, archiviata. Volevo sfidarmi, vivere all’incrocio dei venti, dove le cose, immaginavo, sfuggivano a etichette e denominazioni.
Così ho iniziato a viaggiare. A quattordici anni, d’estate, ero già a Cambridge, da sola, per un mese. Poi l’America, a venti anni. Vivere in California a quell’età vuol dire surfare sulle onde dell’esistenza divisa tra feste di campus e gite al mare. Ma l’oceano attraversato dai gabbiani in volo ti fa capire che c’è di più. E in quegli spazi cosmopoliti, multirazziali, ho respirato un felice senso di libertà.
Così, una volta tornata in Italia, ho proseguito, quando potevo, i miei viaggi. E ho cominciato a viaggiare da sola. Praga, Parigi, Londra. La Russia. Il Marocco. Senza fidanzati, senza gruppi di amici. Viaggiare da sola, per una donna, è sempre più difficile che per un uomo. Ti costringe a misurarti con l’indiscrezione di occhi fissi su di te mentre ceni da sola o arrivi in hotel. Occhi che ti cuciono addosso le proiezioni e le storie più strane.
Per la nostra cultura di massa, lobotomizzata da internet e dalla televisione, terrorizzata dal confronto con gli spazi interiori, c’è sempre qualcosa che non va, nella solitudine. Specialmente in quella femminile. È un’anomalia nel sistema che ti vorrebbe in compagnia del marito e dei figli. O quantomeno con un’amica.
Invece no. Invece puoi viaggiare da sola, anche se sei donna. Il viaggio non ha sesso, un po' come gli angeli. O forse è androgine, come dovrebbe essere, per Virginia Woolf, la vera scrittura.
Il viaggio vero si compie sempre da soli. Per le gite fuori porta, invece, esistono i comodi pacchetti turistici.
Per quelli come me, quelli che vedono nel viaggio un’occasione interiore, un’esperienza che si incide nella carne e nell’anima, che a volte diventa perfino una irrevocabile trasformazione interiore, partire da soli è una necessità fisiologica. Mollati a casa bussola e ormeggi, si naviga a vista sotto le stelle dell’intuizione. Ho sempre amato gli scrittori di viaggio, quelli che hanno raccontato luoghi e città con la forza della loro visione personale, profonda. Con la penna che freme per raccontare un’alterità che in qualche modo diventa casa.
“All’estero mi sento a casa mia”, scriveva Henry Miller. Anche io. E io, in Italia, spesso mi sento straniera.
Una relazione inversa, questa, che ho sempre accettato come un dato di fatto.
Con i suoi entusiasmanti fermenti, Bruce Chatwin ha sempre illuminato la strada che in me congiungeva il viaggio e la scrittura. Ma lo ha fatto anche Emily Dickinson, che ha girato il mondo intero vivendo chiusa nella sua stanza. Perché il viaggio, quello vero, è un’esperienza soprattutto interiore. Che può coincidere o meno con le latitudini esterne. A volte, per una magica combinazione, accade che le geografie si incastrino perfettamente in un’alchemica, vibrante “corrispondenza d’amorosi sensi”. E’ quello che è accaduto a me con Istanbul.
Istanbul. Un colpo di fulmine ma anche un ri-flessione in cui ho visto me stessa. Come accade con un amante, da allora, dalla prima volta che ci sono andata, ho sempre avuto il bisogno di tornarci, sempre. Lei mi capisce, io capisco lei. Diventa per me come un’urgenza, un bisogno fisico e allo stesso tempo un desiderio dell’anima. Istanbul è una porta magica, un viaggio nel viaggio. Rappresenta tutte i contrasti e le contraddizioni che possiamo immaginare. Stanno tutti lì, radunati in questo spazio cosmopolita che incastra due mondi.
Istanbul è anche la protagonista delle fotografie in bianco e nero che mi ostino a scattare con la mia vecchia analogica, una Chinon del 1990, perché il nitore dei pixel distrugge le suggestioni dei volti che rubo qua e là, nelle strade. Sono narrazioni, le fotografie, e non mi piace alterarle con i trucchi del digitale. Old fashion? Forse sì. Ma non sempre "modern" è bello.
E poi c'è stata la partecipazione al movimento di Gezi Park. Mi ci sono trovata in mezzo, quasi per caso, e ho voluto capire, raccontare. Il racconto si chiama Ritorno a Gezi, un reportage narrativo pubblicato dalla rivista Osservatorioiraq, con la quale collaboro scrivendo articoli che affrontano le questioni sociali e umanitarie in Turchia.
Buffo. A Istanbul alcuni sostenitori di Erdogan mi considerano una giornalista "ideologica", "una dei terroristi di Gezi", "una che parte dall'Italia per fare le rivoluzioni" (vai a spiegarlo, a quelli che, pur vivendo a Istanbul, scrivono comodamente da casa, che trovarsi lì, vedere in volto le facce di quei "terroristi anarcoidi" che in realtà sono ragazzi, uomini, donne e bambini, parlare con loro, sentire sulla tua pelle le reazioni di una polizia assurda e violenta, aiutata da media conniventi che censurano la verità, ti coinvolge, e scava un solco dentro di te) mentre in Italia vengo vista, a volte, come una filo-musulmana che scrive e parla troppo bene dell'Islam, e che non condanna le donne velate.
Beh, non è poi così strano, in fondo. L'ho detto: io e Istanbul ci assomigliamo. Siamo fatte di opposti. Non ci piace pendere da una parte soltanto, preferiamo spostarci liberamente nelle contraddizioni, senza appartenere a schieramenti precotti, senza definizioni.
Adesso, ogni mese, prendo un aereo e torno lì. Finché un giorno, chissà, ci resterò per sempre.