Marocco, i volti dell'anima.

 

Il nuovo reportage narrativo e fotografico

 

“Quale campo tendato preferisci, Francesca? Quello con i comfort o quello selvaggio?”

“Quello selvaggio, Faysal. Quello selvaggio”

 

Non immaginavo, in quel momento, che il campo tendato fra le dune del Sahara sarebbe stato solo il battesimo di un’avventura molto più complicata, ed estrema.

A volte l’universo scombina i nostri piani. Ha altri progetti per noi. Traffica con i nostri programmi, li scompone e li ricompone a suo piacimento. Sempre, però, ripercorrendo il disegno, ne troviamo il senso e la direzione.

Ho deciso di tornare in Marocco dopo due anni. Volevo conoscere meglio la terra dell’indaco, dell’ocra, dei rossi che bruciano il cielo al tramonto, prima che la notte baci la terra...

 

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Presentazione de La mia istanbul

L'11 Aprile, a Roma.

Da Gezi Park alle elezioni, si raccontano Istanbul e la Turchia.

 

Turchia, Gezi Park: Il mio nome è Ali Ismail Korkmaz

 gezi Park Istanbul

Si chiamava Ali Ismail Korkmaz. Aveva solo diciannove anni e implorava i suoi assassini di smetterla, ma loro continuavano a massacrarlo di botte. Era il 2 giugno 2013, e anche a Eskişehir, in Anatolia, si manifestava per Gezi Park. Ma era arrivata la polizia, e aveva attaccato.

Ali Ismail tentava di difendersi da quel gruppo di  uomini in abiti civili che lo colpivano, chiedeva loro di smettere. Ma quando lo hanno fatto, era già  troppo tardi. Intervistato da un giornale locale,  un testimone, che vuole mantenere segreta la sua identità,  racconta di averlo visto a terra, esanime, livido per i colpi cruenti alla testa e alla schiena. A un certo punto è svenuto, e solo allora hanno smesso. Quando, lentamente, Ali Ismail ha ripreso coscienza e si è mosso, un uomo ha cominciato a picchiarlo di nuovo. Alla fine lo hanno lasciato andare via, barcollante, tremante.

Ali Ismail però aveva un’emorragia cerebrale. È stato operato, ma non ce l’ha fatta: la sua vita si è spenta il 10 luglio, dopo trentotto giorni di coma.

Ali Ismail Korkmaz.  Uno studente  qualunque, uno dei tanti ragazzi che sognano un paese più libero e democratico,  è morto così. È morto per  un pestaggio,  in un vicoletto.

Quel giorno intorno a lui c’erano, fra gli aggressori,  anche alcuni poliziotti in borghese.

Il principale imputato è Mevlüt Saldoğan,  un agente  che avrebbe sferrato il colpo mortale.

Otto le persone coinvolte, fra poliziotti e civili.

Uno degli imputati  sostiene che  Mevlüt Saldoğan  avrebbe chiesto a lui e ad altri civili di bloccare quel ragazzo che, in fuga dai gas lacrimogeni,  cercava rifugio nelle stradine laterali.  Così la polizia avrebbe potuto “colpirlo con i manganelli”, come stava facendo con gli altri manifestanti.  Ecco che allora due uomini  hanno fermato Ali Ismail, intrappolandolo. Non hanno partecipato al pestaggio, sostengono. Hanno “solo” catturato un loro concittadino, disarmato, per farlo picchiare. Uno di loro, uno che aveva soltanto un’idea diversa di libertà.

Ali Ismail è stato dunque fermato e un gruppetto di persone, fra cui alcuni poliziotti in borghese, lo ha picchiato, senza pietà. Calci, pugni, manganellate addosso a uno studente disarmato. In testa, nelle gambe, sulla schiena. È svenuto e, quando ha ripreso conoscenza, è stato picchiato ancora.

E pensare che Erdoğan ha lodato la polizia, la scorsa estate, per “l’eroismo” dimostrato.

Ma se è eroismo attaccare con violenza manifestanti indifesi, colpirli a distanza  ravvicinata, minacciarli e picchiarli a sangue all’interno dei pullman, coprire le videocamere di sorveglianza disposte lungo le strade per cancellare le prove, allora dobbiamo rivedere, tutti, il significato di questa parola.

La lista degli abusi compiuti nei giorni di Gezi Park è lunga, come denuncia anche il rapporto di Amnesty International.

Stavolta gli “eroi” di Erdoğan non sono stati immortalati da una foto che ha fatto il giro del mondo, come nel caso di Ceyda Sungur, la ragazza in rosso, l’icona di Gezi Park, ma sono stati ripresi da  alcune videocamere.  Tuttavia i video, sequestrati dalla polizia, risultano danneggiati. Altre videocamere in quel momento non riprendevano nulla. Il sospetto di prove scomparse, manomesse, distrutte, rende i fatti ancora più gravi. Ma malgrado la cancellazione, le immagini di una telecamera a circuito chiuso, grazie all’intervento del pubblico ministero che è ricorso a un gruppo di esperti, sono state ripristinate. E ora sono  in mano all’accusa.  Rappresentano una delle prove fondamentali.

Se le altre riprese  che avrebbero dovuto mostrare i fatti sono misteriosamente inesistenti  (c’erano diverse videocamere in azione quel giorno, ma la polizia ha dichiarato che sono state involontariamente danneggiate dai Toma, i blindati),  sul quotidiano Radikal spunta un altro video, rintracciato da un reporter che segue il caso: si vedono alcuni uomini in borghese fermare i manifestanti e colpirli. Fra loro, quel giorno, c’era anche Ali Ismail.

Ora, finalmente,  il processo.

I testimoni, quella sera, non sono intervenuti. Avevano paura di essere picchiati, anche loro. In silenzio,spaventati, hanno visto Ali Ismail allontanarsi lentamente, barcollando.

All’ospedale, dove era andato per farsi curare, Ali Ismail è stato liquidato  dal dottor Hasan Gülcü perché a suo dire non aveva nulla di grave. Unica prescrizione, alcuni antidolorifici.  Nonostante gli evidenti segni dei traumi e delle percosse, non è stato curato. Gli è stato detto  che sarebbe dovuto tornare con una denuncia formale fatta alla polizia, visto il suo caso.

Tornato a casa, dopo un sonno profondo si è svegliato e ha realizzato di non poter più muovere bene la lingua, racconta il fratello. È tornato in ospedale ma, di nuovo, gli è stato intimato di andare prima dalla polizia per una denuncia.  Così ha fatto.

Questa,  la sua testimonianza: “Cinque o sei persone sono venute da me, mi hanno picchiato sulla testa, sulla schiena, sulle spalle e sulle gambe. Sono caduto a terra. Ieri non avevo difficoltà a parlare, ma oggi non riesco a ricordare bene. Non ho più un dente. Mi fa male la testa. Non so chi mi ha picchiato o perché. Erano persone in abiti civili.  Voglio fare una denuncia”.

Poi  di nuovo in ospedale dove, finalmente,  è stato visitato in modo adeguato.  Gli è stata diagnosticata un’emorragia cerebrale.  

Ali Ismail è stato operato, ma non si è svegliato mai più.

La sua storia, insieme a quella di altre vittime,  è stata raccontata a voce alta dagli attivisti di Gezi Park che, la scorsa estate, hanno improvvisato raduni sugli autobus, nei bar, nei parchi.  Per informare, per denunciare.

Il suo volto è stato disegnato sui muri della città,  è comparso sui poster e sui manifesti che hanno accompagnato le manifestazioni. Lui ha partecipato alle proteste così, fermo nello scatto di una fotografia,  con i suoi occhi scuri come i fondi di caffè nei quali, in Turchia, si legge il futuro. Ma non ci sarà più nessun futuro, per lui.  Solo un buco nero, senza fondo, che l’ha inghiottito e se lo è portato via.

La  foto di Ali Ismail  è stata condivisa nei profili  facebook di tutto il mondo, accompagnata dalla scritta: “My name is Ismail Korkmaz. Plainclothes police allegedy beaten me on June 2. I stayed in coma for 38 days. Today I am dead”. 

Su twitter, l’hashtag #AliIsmailKorkmaz da mesi raduna foto e aggiornamenti sulla sua vicenda.

I suoi parenti, loro, non mollano.

Da Eskişehir il processo, fra molte critiche e lamentele,  è stato spostato nella cittadina di Kayseri, sempre in Anatolia, per “motivi di sicurezza”.

È il 3 febbraio e la gente attende l’inizio, in piazza.  Una piazza piena. Un gruppo di attivisti grida slogan di protesta. Chiede giustizia, quella giustizia che spesso, troppo spesso,  sembra avere due pesi, due misure diverse.

Ali Ismail burada! Bilal nerede?” “Ali Ismail è qui, dov’è Bilal?” Il riferimento è al figlio del primo ministro, sospettato  di essere coinvolto negli scandali che recentemente hanno travolto il governo con una sorta di “Tangentopoli” turca.

La famiglia di Ali  Ismail è stata accolta con affetto e calore, gente di ogni tipo gli si è radunata  intorno, quasi a proteggerla, mentre varcava la soglia del tribunale. Nessuno, da mesi, dimentica il dolore di sua madre, quella donna che, con il viso circondato da un foulard, gira le piazze  stringendo sul petto la foto del figlio. Puntando la fotografia in direzione degli imputati, in tribunale li ha apostrofati così: “Come avete potuto uccidere mio figlio  in quel modo? Ora come potete  guardare dritto negli occhi i vostri figli?”.

Di sicuro non esita, lei, a guardarli negli occhi.

Non ha pace, ha la forza implacabile di una madre ferita, possiede  l’energia disperata di un’anima infranta per sempre.

Fuori, moltissimi cittadini attendono. E, con loro, attende tutta la Turchia. Perché questo è uno di quei processi che “scottano” nelle mani della giustizia.

Ali Ismail è una delle vittime di Gezi Park, e Gezi Park è ormai un simbolo nella coscienza dei turchi. Bisogna farci i conti, da qualunque parte dello schieramento si stia.

Duemila poliziotti,  i Toma  e gli elicotteri in volo indicano, inequivocabilmente, l’impatto massiccio di questo processo.

All’inizio ci hanno provato, hanno provato a far credere che i colpevoli fossero  altri, ma l’Associazione Avvocati di Eskişehir ha raccolto una serie di prove robuste.

Gli accusati però sostengono di non aver provocato lesioni letali. Giurano, si difendono.

Non sarà un processo facile. Questo è certo.

Ma i cittadini che attendono, in piazza, fuori dal tribunale, sono in tumulto.

Perché non si può morire a diciannove anni solo per aver partecipato a una protesta, senza aggredire nessuno.

Non si può essere inseguiti, feriti, colpiti a morte, solo per condiviso con altri un sogno di democrazia e libertà.

Ali Ismail è morto insieme al suo sogno. Noi invece siamo vivi, e non dobbiamo smettere di sperare in un mondo migliore. Anche se a volte è difficile. Terribilmente  difficile.

 L'articolo è pubblicato su Osservatorioraq

Istanbul, il "caldo" weekend di Piazza Taksim

taksim

 

“Internetime dokumna!”, “Don’t touch my internet!”. Questo lo slogan che ha chiamato a raccolta, sabato scorso a piazza Taksim, centinaia di manifestanti.  E, stavolta, al centro della protesta non c’era un parco, ma internet.

La commissione parlamentare ha infatti approvato un progetto di legge con il quale il governo potrà esercitare un controllo fortissimo su tutta la rete.

La proposta, preparata dall’AKP (il partito di ispirazione islamica al governo), comporta, secondo le associazioni e i comitati cittadini in rivolta, il serio rischio di censura nei confronti dell’unico mezzo di informazione davvero libero che, non a caso, è stato lo strumento privilegiato di comunicazione e diffusione delle informazioni durante la rivolta di Gezi .

La scorsa estate, il Primo ministro Erdoğan aveva condannato l’uso dei social paragonando twitter alla “peggior minaccia di una società”. Ma è proprio grazie alle notizie, foto e video pubblicate sui social che gli attivisti turchi hanno scavalcato il bavaglio dei media portando l’attenzione su quanto stava accadendo.

La rete e le manifestazioni di Gezi Park sono collegate a doppio filo. Internet ha avuto un ruolo centrale nelle proteste. Lo sanno le opposizioni, lo sanno i manifestanti. E lo sa il governo.

Sabato scorso la gente, in piazza, si è quindi ribellata ad un rafforzamento del controllo sul web. Quel web che oggi, nelle società di tutto il mondo, è sintomo e simbolo, più di ogni cosa, della libera espressione di una democrazia, agevolata da una informazione in tempo reale capace di anticipare le notizie filtrate dei media tradizionali.

Dunque, un tema particolarmente scottante in una Turchia scossa, dopo i fatti di Gezi, dagli eventi che hanno visto protagonisti diversi esponenti del governo, travolti dallo scandalo che ha portato a un forzato rimpasto nell’esecutivo.

Se la proposta diventerà legge, al governo sarà possibile impedire l’accesso ad alcuni siti web senza passare per la magistratura.

Le aziende che ospitano i siti web dovranno inoltre aderire a un nuovo organismo, posto sotto la verifica diretta del ministero, che attraverso una banca dati potrà controllare, per due anni, le pagine visitate dagli utenti turchi.

Decisamente troppo, per un paese già in netta difficoltà nell’espressione libera delle divergenze. E così, il 18 gennaio, a Istanbul come in altre città, compresa la capitale Ankara, i cittadini si sono riuniti per manifestare.

Era dai tempi di Gezi che a piazza Taksim non si vedeva un raduno di simili proporzioni. In piazza sono scesi a migliaia.

Non sono mancate le solite scritte umoristiche che, come sempre, caratterizzano queste manifestazioni. Alcuni  hanno mostrato cartelli che facevano il verso al premier ridicolizzando la sua pretesa di controllare la rete: “tayyp:// ”,  recitavano.

Ma dietro gli scherzi c’era molta, moltissima tensione e timore. Youtube, il quinto sito per numero di visite nel paese, in passato è già stato bloccato più volte. L’hashtag dell’evento, #18Ocak18DeSokaklara, lanciato in rete, ha immediatamente raccolto moltissimi accessi e condivisioni mentre in  piazza, la polizia, come al solito disperdeva la folla ricorrendo a un massiccio uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.

 

Non sono mancati gli arresti, naturalmente.

E tuttavia quella folla radunata a Taksim non era violenta, ancora una volta era la popolazione civile: uomini, donne, ragazzi che hanno chiesto rispetto per la loro libertà, per il loro spazio privato, individuale.

Non credono alla scusa di un controllo maggiore sulla pedofilia, per tutelare i minori, credono invece che l’azione moralizzatrice di Erdoğan continui a usare l’Islam per rafforzare, in realtà, il  potere del premier. Che in questo modo avrebbe una scusa “legale” per mettere a tacere voci scomode, dissidenti. Specialmente ora che si avvicinano le elezioni amministrative e nell’AKP la tensione  sale dopo la scissione di Fetullah Gülen.

Di certo, nelle prossime settimane si tornerà a discutere di web e dei provvedimenti che, in un momento delicato come questo, somigliano davvero a  una censura.

Il lungo weekend in piazza, intanto, è proseguito domenica 19 gennaio per ricordare l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso sette anni fa davanti al palazzo del giornale che dirigeva, il settimanale Agos, da un nazionalista diciassettenne, Ogün Samast, condannato a più di ventidue anni di carcere.

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Turchia, Gezi Park: giustizia per la "ragazza in rosso"

 

 

 

Il suo nome è Ceyda Sungur, studentessa. E' diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza di Gezi contro le imposizioni del governo e le aggressioni degli agenti. Ora la procura di Istanbul ha chiesto  tre anni di carcere per il poliziotto che le ha sparato il gas da distanza ravvicinata.

 

Una ragazza, in un parco. Indossa un abito rosso, leggero, come la giornata di primavera che sparge intorno i raggi di sole. Davanti a lei, un poliziotto le scarica addosso con violenza, a distanza ravvicinata, una dose massiccia di gas lacrimogeno mescolato con  agenti irritanti.

Lei si gira per proteggersi mentre i capelli e il vestito si sollevano per la forza d’urto e l’uomo continua, continua ad attaccarla, non molla.

Il parco è quello di Gezi.

Il nome di questa ragazza è Ceyda Sungur, ed è una studentessa. Diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza contro le cariche degli agenti. I fatti sono avvenuti il 28 maggio 2013.

E questa immagine, catturata da video e fotografie, è diventata una delle icone del movimento Gezi Park.

Foto e illustrazioni che ritraggono la scena sono comparse ovunque, l’hanno riprodotta, e moltiplicata. Sui manifesti, sui giornali, sui libri. Un’immagine che ha scosso, ed emozionato, il mondo intero.

Perché è una delle immagini che testimoniano, con molta eloquenza, gli abusi della polizia contro i cittadini inermi, disarmati.

L’unica arma di Ceyda era la sua voce, innalzata, insieme alle altre, in difesa del parco. Ma soprattutto, in difesa dei principi della democrazia.

Contro la furia del poliziotto è rimasta lì, in piedi, senza armi, senza protezioni.

Il contrasto tra la sua figura femminile, con il vestito rosso che svolazza intorno alle gambe, e l’immagine del poliziotto armato, protetto da scudi, maschere antigas ed elmetto, ha rivelato - più di qualunque parola di denuncia - la brutalità di un attacco spropositato.

Ora la “donna in rosso”, come è stata chiamata finché i giornalisti non hanno scoperto il suo nome, ha finalmente avuto giustizia.

L’agente (la stampa turca lo indica come F.Z.) è ritenuto colpevole di aver violato le regole per l’uso del gas durante i movimenti di protesta, avvicinandosi a meno di un metro e puntando dritto al volto della ragazza.

Né prima né dopo quell’attimo immortalato nella fotografia, Sugur ha mostrato alcun proposito di aggressione.

La sua è stata una resistenza pacifica. E adesso, finalmente, quella resistenza pacifica le è stata riconosciuta.

Il poliziotto, ventitreenne, rischia tre anni di prigione, riporta l’agenzia stampa  Doğan.

Per una volta, sembra che la polizia sia rimasta scoperta.

Quella foto rimarrà nella mente di molti come simbolo, come icona rappresentativa di una protesta in cui i cittadini hanno mostrato volti molto diversi da quelli dei “terroristi” evocati da Erdoğan.

Una riflessione si impone. Grazie al contributo dei presenti che hanno scattato foto, girato video, affiancando il lavoro del giornalismo tradizionale, è stato possibile mostrare una realtà che sconfessava le dichiarazioni governative. Sono state le fotografie di gente qualunque, spesso, a testimoniare gli eventi.

Sicuramente ci sono stati episodi violenti anche da parte di alcune frange di manifestanti. La verità non è mai monolitica.

Ma questa immagine dimostra, nel suo misto di crudezza e innocenza, la capacità di un popolo di sollevarsi senza usare le armi, senza ricorrere all’aggressione.

Quei giorni, a Gezi, hanno evidenziato il potere di migliaia di cittadini  scesi  in piazza disarmati, diversi, ma uniti, estremamente uniti.

E stavolta, chi sta dall’altra parte dovrà pagare.

Perché la legge del più forte non vince sempre e comunque. Non stavolta, almeno.