Istanbul e gli scrittori: Galata raccontata da De Amicis

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Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d'essere in Oriente. Da tutet le parti si sente parlare francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un'aria un po' da padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano con il cannone alle minacce degli Imperatori. Ma della loro possenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l'antico edificio dove risiedeva il Podestà.

La Galata antica à quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono state rase al suolo per ar luogo a due lunghe strade: una delle quali rimonta la collina verso Pera, e l'altra corre parallela alla riva del mare da un'estemità all'altra di Galata.

Per questa c'inoltrammo il mio amico e io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombrano la strada a colpi di verga.

A ogni passo ci suonava all'orecchio un grido. Il facchino turco urlava: Sacun ba! (Largo!), il saccà armeno, portatore d'acqua, Varme su! l'acquaiolo greco: Crio nero! l'asinaio turco: Burada! il venditoredi dolci: Scerbet! il venditore di giornali :Neologos! il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati.