I curdi di Suleymanyie
8 agosto 2013
In un pomeriggio invernale scandito da un cielo di gesso che libera fiori di neve grandi come chicchi d’uva, incrocio un gruppo di ragazzini che si tirano addosso palle di ghiaccio. Hanno addosso vestiti un po’ trasandati in cui tuttavia alcuni dettagli svelano la premura di mani amorose che hanno cercato di combinare i colori, incastrandoli fra loro come pezzi di un puzzle in cui batte un cuore. La gioia scarmigliata contamina anche le donne che escono fuori al freddo e si uniscono alla guerra di neve, dimenticando il pudore davanti alla straniera che si ferma e li osserva con la stessa timida circospezione di un’ospite sconosciuto aggiunto per caso a una cena.
I ragazzini sono una banda compatta, maschi e femmine rapite dall’eccitazione che scalda l’aria attraversata da razzi di ghiaccio che decollano da manine sveltissime, mentre tutti girano come trottole senza direzioni e confini.
Guardo ancora i loro occhi e mi accorgono di leggerci storie che superano i limiti di una lingua diversa. E penso che la vera Babele non è nel linguaggio ma nella testa delle persone, negli steccati delle paure, dei pregiudizi con cui affrontiamo il “diverso”, privandoci di insospettate ricchezze.
Fra loro c’è Aleyna, una bambina curda che non supera i cinque anni, i capelli divisi in codine e la faccia sgranata sulla mia macchina fotografica con la quale si diverte a scattare fotografie senza logica e senso, girando intorno a se stessa come un derviscio. Sono belle, le sue foto: la vera arte nasce in fondo così, da un impulso caotico, da un disordine privo di schemi. Forse è per questo che in molti candidati alle suggestioni dell’arte la tecnica finisce per uccidere l’ispirazione. Non si impara, il talento. E non si compra, come l’amore.
Aleyna ruota e ride, ride e ruota, impegnata a catturare il mondo in frammenti . Somiglia a un cacciatore di farfalle mentre insegue le immagini che le svolazzano intorno a caso, poggiandosi sui fiori della sua gioia ebbra di vita. E’ felice per quell’oggetto che stringe a sé come il più prezioso dei tesori.
Gli altri bambini si dispongono in cerchio e mi sorridono trafiggendomi il cuore.
L’allegria di Aleyna esplode come botti a capodanno, prosegue, incalza, contamina i passanti, trascina la madre nella sua felicità.
Una macchina fotografica diventa un mondo, un luogo avventuroso di scoperte da trattenere il più a lungo possibile perché lei in fondo sa, sa che la straniera deve portarsi via la sua catola delle meraviglie. E invece la meraviglia sei tu, Aleyna. Sono i tuoi occhi che sembrano una luna piena, le mani agili come coriandoli, il sorriso fiducioso in cui la vita è sempre e comunque speranza. La meraviglia è il tuo fare infantile che si mescola a un guizzo adulto nascosto qua e là. E’ il modo in cui apri il mio ombrello di plastica azzurra e ti ci perdi dentro, in gioco che si incrocia perfettamente con la macchina che tieni in mano.
Me la riprendo, quella macchina, lasciando però una promessa a tua madre, sigillata in una lingua di gesti che tentano di versare il cuore nelle mani che stringo nel tentativo di farle capire.
Tento di regalare i soldi che permetteranno l’acquisto del magico oggetto ma la donna respinge la mia offerta con la ferma gentilezza di una dignità che, nel nostro mondo, abbiamo dimenticato, sempre pronti ad arraffare, a prendere, a contrabbandare, tesi verso l’ottenimento senza fatica.
Mi guardano, madre e figlia, salutandomi con le mani arrampicate sulla cima dell’ultimo sorriso mentre mi incammino sulla discesa, in direzione di Eminönü. Ho voglia di mare. Me ne vado seguita dai ragazzini più grandi, scendiamo insieme alcuni scalini schivando le insidie del ghiaccio. Tutto intorno, l’erba di cotone si arrampica fini ai muri di case semidistrutte. Malgrado la povertà evidente si respira un’atmosfera di pace, avvolta da un calore che spezza qualunque lingua di ghiaccio.
I bambini mi fanno cenno, invitandomi a fotografarli. Si dispongono sui gradini avvolti nelle sciarpe e puntano lo sguardo verso un orizzonte che sembra infilato in uno spazio senza tempo, gli occhi serissimi, lontani, affilati come spilli, la bocca seria in cui scompare il sorriso dell’infanzia , trasformato in una linea perfetta, geometria di voci adulte e remote.
Sembrano statue di sale incorniciate dal bianco che continua a cadere. Non stanno posando, non fanno “facce da fotografo” , come cantilenava la voce del film di Werner: nella loro immobilità perfetta sono spontanei, raccontano se stessi, la voglia di crescere, lo spazio fragile tra il mondo infantile e quello dei grandi che a un certo punto si assottiglia come una porta corrosa da un tempo precoce su cui sono passati, malgrado la giovane età, molteplici inverni e arsure estive.
Sono in cerca della loro storia, quella che scriveranno da grandi. Eccoli, piccoli adulti imbacuccati nei vestiti colorati, incuriositi dalla straniera con la macchina fotografica. Gliela consegno per lasciarli giocare ancora un po’, e di nuovo il sorriso di bimbo si allarga fino agli estremi del mondo mentre ci raduniamo in gruppetti per fotografarci a vicenda. Alcune donne si fermano, sorridono. “Kurdish”, dicono indicando i bambini e se stesse. Curdi, l’unica parola che riesco a capire. Curdi. Un suono senza terra.
Il suono di un popolo privato del diritto all’indipendenza, una ferita sparsa nelle geografie di altri, come la sua gente, la gente che vive sempre come un’eterna inquilina di troppo.
Mi vengono in mente alcuni versi di Hikmet, il poeta turco che amo da sempre, che si trovano nella lettera a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all'uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzitutto ama l'uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell'animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell'uomo”.
Alcuni sono condannati, invece, a vivere per sempre come inquilini. Sono coloro ai quali la terra è stata negata, e forse è questo che riassumono quei piccoli sguardi adulti, seri: la gioia di credere ancora al mare e alla terra sentendo però allo stesso tempo tutta la tristezza dell’uomo. Ma la loro è una malinconia fugace, sottile come un sussurro che increspa il mare; sta nella pelle, respira attraverso i pori senza mai invadere la vita di cui diventa l’ombra disegnata nei giochi di luce. Perché conoscono il sapore speciale dei momenti piccoli come spicchi di sogni rimasti sulla soglia del giorno. Episodi ordinari che accadono ogni giorno e di cui sanno ancora stupirsi.