Turchia, Gezi Park: giustizia per la "ragazza in rosso"
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- Mercoledì, 22 Gennaio 2014
Il suo nome è Ceyda Sungur, studentessa. E' diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza di Gezi contro le imposizioni del governo e le aggressioni degli agenti. Ora la procura di Istanbul ha chiesto tre anni di carcere per il poliziotto che le ha sparato il gas da distanza ravvicinata.
Una ragazza, in un parco. Indossa un abito rosso, leggero, come la giornata di primavera che sparge intorno i raggi di sole. Davanti a lei, un poliziotto le scarica addosso con violenza, a distanza ravvicinata, una dose massiccia di gas lacrimogeno mescolato con agenti irritanti.
Lei si gira per proteggersi mentre i capelli e il vestito si sollevano per la forza d’urto e l’uomo continua, continua ad attaccarla, non molla.
Il parco è quello di Gezi.
Il nome di questa ragazza è Ceyda Sungur, ed è una studentessa. Diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza contro le cariche degli agenti. I fatti sono avvenuti il 28 maggio 2013.
E questa immagine, catturata da video e fotografie, è diventata una delle icone del movimento Gezi Park.
Foto e illustrazioni che ritraggono la scena sono comparse ovunque, l’hanno riprodotta, e moltiplicata. Sui manifesti, sui giornali, sui libri. Un’immagine che ha scosso, ed emozionato, il mondo intero.
Perché è una delle immagini che testimoniano, con molta eloquenza, gli abusi della polizia contro i cittadini inermi, disarmati.
L’unica arma di Ceyda era la sua voce, innalzata, insieme alle altre, in difesa del parco. Ma soprattutto, in difesa dei principi della democrazia.
Contro la furia del poliziotto è rimasta lì, in piedi, senza armi, senza protezioni.
Il contrasto tra la sua figura femminile, con il vestito rosso che svolazza intorno alle gambe, e l’immagine del poliziotto armato, protetto da scudi, maschere antigas ed elmetto, ha rivelato - più di qualunque parola di denuncia - la brutalità di un attacco spropositato.
Ora la “donna in rosso”, come è stata chiamata finché i giornalisti non hanno scoperto il suo nome, ha finalmente avuto giustizia.
L’agente (la stampa turca lo indica come F.Z.) è ritenuto colpevole di aver violato le regole per l’uso del gas durante i movimenti di protesta, avvicinandosi a meno di un metro e puntando dritto al volto della ragazza.
Né prima né dopo quell’attimo immortalato nella fotografia, Sugur ha mostrato alcun proposito di aggressione.
La sua è stata una resistenza pacifica. E adesso, finalmente, quella resistenza pacifica le è stata riconosciuta.
Il poliziotto, ventitreenne, rischia tre anni di prigione, riporta l’agenzia stampa Doğan.
Per una volta, sembra che la polizia sia rimasta scoperta.
Quella foto rimarrà nella mente di molti come simbolo, come icona rappresentativa di una protesta in cui i cittadini hanno mostrato volti molto diversi da quelli dei “terroristi” evocati da Erdoğan.
Una riflessione si impone. Grazie al contributo dei presenti che hanno scattato foto, girato video, affiancando il lavoro del giornalismo tradizionale, è stato possibile mostrare una realtà che sconfessava le dichiarazioni governative. Sono state le fotografie di gente qualunque, spesso, a testimoniare gli eventi.
Sicuramente ci sono stati episodi violenti anche da parte di alcune frange di manifestanti. La verità non è mai monolitica.
Ma questa immagine dimostra, nel suo misto di crudezza e innocenza, la capacità di un popolo di sollevarsi senza usare le armi, senza ricorrere all’aggressione.
Quei giorni, a Gezi, hanno evidenziato il potere di migliaia di cittadini scesi in piazza disarmati, diversi, ma uniti, estremamente uniti.
E stavolta, chi sta dall’altra parte dovrà pagare.
Perché la legge del più forte non vince sempre e comunque. Non stavolta, almeno.