Istanbul, il "caldo" weekend di Piazza Taksim
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- Venerdì, 24 Gennaio 2014
“Internetime dokumna!”, “Don’t touch my internet!”. Questo lo slogan che ha chiamato a raccolta, sabato scorso a piazza Taksim, centinaia di manifestanti. E, stavolta, al centro della protesta non c’era un parco, ma internet.
La commissione parlamentare ha infatti approvato un progetto di legge con il quale il governo potrà esercitare un controllo fortissimo su tutta la rete.
La proposta, preparata dall’AKP (il partito di ispirazione islamica al governo), comporta, secondo le associazioni e i comitati cittadini in rivolta, il serio rischio di censura nei confronti dell’unico mezzo di informazione davvero libero che, non a caso, è stato lo strumento privilegiato di comunicazione e diffusione delle informazioni durante la rivolta di Gezi .
La scorsa estate, il Primo ministro Erdoğan aveva condannato l’uso dei social paragonando twitter alla “peggior minaccia di una società”. Ma è proprio grazie alle notizie, foto e video pubblicate sui social che gli attivisti turchi hanno scavalcato il bavaglio dei media portando l’attenzione su quanto stava accadendo.
La rete e le manifestazioni di Gezi Park sono collegate a doppio filo. Internet ha avuto un ruolo centrale nelle proteste. Lo sanno le opposizioni, lo sanno i manifestanti. E lo sa il governo.
Sabato scorso la gente, in piazza, si è quindi ribellata ad un rafforzamento del controllo sul web. Quel web che oggi, nelle società di tutto il mondo, è sintomo e simbolo, più di ogni cosa, della libera espressione di una democrazia, agevolata da una informazione in tempo reale capace di anticipare le notizie filtrate dei media tradizionali.
Dunque, un tema particolarmente scottante in una Turchia scossa, dopo i fatti di Gezi, dagli eventi che hanno visto protagonisti diversi esponenti del governo, travolti dallo scandalo che ha portato a un forzato rimpasto nell’esecutivo.
Se la proposta diventerà legge, al governo sarà possibile impedire l’accesso ad alcuni siti web senza passare per la magistratura.
Le aziende che ospitano i siti web dovranno inoltre aderire a un nuovo organismo, posto sotto la verifica diretta del ministero, che attraverso una banca dati potrà controllare, per due anni, le pagine visitate dagli utenti turchi.
Decisamente troppo, per un paese già in netta difficoltà nell’espressione libera delle divergenze. E così, il 18 gennaio, a Istanbul come in altre città, compresa la capitale Ankara, i cittadini si sono riuniti per manifestare.
Era dai tempi di Gezi che a piazza Taksim non si vedeva un raduno di simili proporzioni. In piazza sono scesi a migliaia.
Non sono mancate le solite scritte umoristiche che, come sempre, caratterizzano queste manifestazioni. Alcuni hanno mostrato cartelli che facevano il verso al premier ridicolizzando la sua pretesa di controllare la rete: “tayyp:// ”, recitavano.
Ma dietro gli scherzi c’era molta, moltissima tensione e timore. Youtube, il quinto sito per numero di visite nel paese, in passato è già stato bloccato più volte. L’hashtag dell’evento, #18Ocak18DeSokaklara, lanciato in rete, ha immediatamente raccolto moltissimi accessi e condivisioni mentre in piazza, la polizia, come al solito disperdeva la folla ricorrendo a un massiccio uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Non sono mancati gli arresti, naturalmente.
E tuttavia quella folla radunata a Taksim non era violenta, ancora una volta era la popolazione civile: uomini, donne, ragazzi che hanno chiesto rispetto per la loro libertà, per il loro spazio privato, individuale.
Non credono alla scusa di un controllo maggiore sulla pedofilia, per tutelare i minori, credono invece che l’azione moralizzatrice di Erdoğan continui a usare l’Islam per rafforzare, in realtà, il potere del premier. Che in questo modo avrebbe una scusa “legale” per mettere a tacere voci scomode, dissidenti. Specialmente ora che si avvicinano le elezioni amministrative e nell’AKP la tensione sale dopo la scissione di Fetullah Gülen.
Di certo, nelle prossime settimane si tornerà a discutere di web e dei provvedimenti che, in un momento delicato come questo, somigliano davvero a una censura.
Il lungo weekend in piazza, intanto, è proseguito domenica 19 gennaio per ricordare l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso sette anni fa davanti al palazzo del giornale che dirigeva, il settimanale Agos, da un nazionalista diciassettenne, Ogün Samast, condannato a più di ventidue anni di carcere.
Turchia, Gezi Park: giustizia per la "ragazza in rosso"
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- Mercoledì, 22 Gennaio 2014
Il suo nome è Ceyda Sungur, studentessa. E' diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza di Gezi contro le imposizioni del governo e le aggressioni degli agenti. Ora la procura di Istanbul ha chiesto tre anni di carcere per il poliziotto che le ha sparato il gas da distanza ravvicinata.
Una ragazza, in un parco. Indossa un abito rosso, leggero, come la giornata di primavera che sparge intorno i raggi di sole. Davanti a lei, un poliziotto le scarica addosso con violenza, a distanza ravvicinata, una dose massiccia di gas lacrimogeno mescolato con agenti irritanti.
Lei si gira per proteggersi mentre i capelli e il vestito si sollevano per la forza d’urto e l’uomo continua, continua ad attaccarla, non molla.
Il parco è quello di Gezi.
Il nome di questa ragazza è Ceyda Sungur, ed è una studentessa. Diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza contro le cariche degli agenti. I fatti sono avvenuti il 28 maggio 2013.
E questa immagine, catturata da video e fotografie, è diventata una delle icone del movimento Gezi Park.
Foto e illustrazioni che ritraggono la scena sono comparse ovunque, l’hanno riprodotta, e moltiplicata. Sui manifesti, sui giornali, sui libri. Un’immagine che ha scosso, ed emozionato, il mondo intero.
Perché è una delle immagini che testimoniano, con molta eloquenza, gli abusi della polizia contro i cittadini inermi, disarmati.
L’unica arma di Ceyda era la sua voce, innalzata, insieme alle altre, in difesa del parco. Ma soprattutto, in difesa dei principi della democrazia.
Contro la furia del poliziotto è rimasta lì, in piedi, senza armi, senza protezioni.
Il contrasto tra la sua figura femminile, con il vestito rosso che svolazza intorno alle gambe, e l’immagine del poliziotto armato, protetto da scudi, maschere antigas ed elmetto, ha rivelato - più di qualunque parola di denuncia - la brutalità di un attacco spropositato.
Ora la “donna in rosso”, come è stata chiamata finché i giornalisti non hanno scoperto il suo nome, ha finalmente avuto giustizia.
L’agente (la stampa turca lo indica come F.Z.) è ritenuto colpevole di aver violato le regole per l’uso del gas durante i movimenti di protesta, avvicinandosi a meno di un metro e puntando dritto al volto della ragazza.
Né prima né dopo quell’attimo immortalato nella fotografia, Sugur ha mostrato alcun proposito di aggressione.
La sua è stata una resistenza pacifica. E adesso, finalmente, quella resistenza pacifica le è stata riconosciuta.
Il poliziotto, ventitreenne, rischia tre anni di prigione, riporta l’agenzia stampa Doğan.
Per una volta, sembra che la polizia sia rimasta scoperta.
Quella foto rimarrà nella mente di molti come simbolo, come icona rappresentativa di una protesta in cui i cittadini hanno mostrato volti molto diversi da quelli dei “terroristi” evocati da Erdoğan.
Una riflessione si impone. Grazie al contributo dei presenti che hanno scattato foto, girato video, affiancando il lavoro del giornalismo tradizionale, è stato possibile mostrare una realtà che sconfessava le dichiarazioni governative. Sono state le fotografie di gente qualunque, spesso, a testimoniare gli eventi.
Sicuramente ci sono stati episodi violenti anche da parte di alcune frange di manifestanti. La verità non è mai monolitica.
Ma questa immagine dimostra, nel suo misto di crudezza e innocenza, la capacità di un popolo di sollevarsi senza usare le armi, senza ricorrere all’aggressione.
Quei giorni, a Gezi, hanno evidenziato il potere di migliaia di cittadini scesi in piazza disarmati, diversi, ma uniti, estremamente uniti.
E stavolta, chi sta dall’altra parte dovrà pagare.
Perché la legge del più forte non vince sempre e comunque. Non stavolta, almeno.
L'hamam e il tempo circolare (1)
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- Venerdì, 17 Gennaio 2014
La prima volta in un hamam ti resta addosso per sempre. E' come una crepa nel tempo ordinario. In questa grotta umida, al riparo dalla frenesia della città, dai suoi clacson, dalle urla caotiche, dai tumulti moderni della vita che corre, si vive una dimensione diversa. Qui il tempo cessa di essere la linea retta che immaginiamo per curivarsi disegnando una circonferenza infinita. La mente si fa liquida, diventa un lago calmo in cui evapora ogni tensione.
La mia prima volta è stata a Süleymaniye. A pochi passi dalla moschea, in una stradina sterrata e fatiscente, come molte strade della Istanbul vecchia, una piccola porta rivela l'accesso al paradiso. Questo è l'unico hamam, in città, che purtroppo permette la presenza contemporanea di uomini e donne. Una scelta commerciale, turistica. Ma ha una pietra bollente che squaglia ogni tensione e riduce il volume di tutti i pensieri, ne annulla il peso specifico.
Gli arredi sono in legno, con un grande lampadario centrale e una scala che conduce al piano superiore dove sono disposti gli spogliatoi, stanzette dotate di chiave che l'ospite, tramite il cerchietto di ferro al quale è agganciata, si infila al polso e tiene con sé.
Sono stata accolta con un sorriso in cui si raccoglie tutta la sapiente ospitalità dei turchi. Il rituale di preparazione consiste nell'indossare buffi zoccoletti chiamati takunya.
Il corpo si è steso nella grande pietra centrale, in attesa di insaponature e massaggi. E mi sono goduta il mio hamam.
Ma, dopo le prime volte negli hamam, preferisco optare solo per la sosta in mezzo ai vapori, con il calore che mi circonda il collo, le braccia, le gambe, fino a raggiungere la cupola di pietra antica dalle cui finestrelle di vetro fa capolino un pezzo di cielo. Niente massaggi, o saponi. Solo la sospensione del fare.
Se per caso la permanenza in questo ozio dolcissimo coincide con il richiamo del muezzin, allora la pietra diventa un tappeto magico in volo verso le stelle.
Certo, un hamam misto, come quello di Süleymaniye non è un vero hamam. E' come se la modernità volesse intrufolarsi in tradizioni che non le appartengono, violetandone la natura profonda.
Preferisco andare negli altri hamam della città, per questo. Ma ci torno, comunque, perchè adoro la sua pietra particolarmente bollente.
E adoro perdermi nelle anse del tempo.
Sono diventata un'assidua frequentatrice degli hamam. Ci vado da sola, o con le mie amiche turche.
Galleggio, così. Senza pelle, senza pensieri, senza colori. Il corpo perde materia mentre il silenzio si fa quasi solido, in una sorta di inversione che confonde gli stati ordinari.
Negli hamam, mi godo il silenzio.
Oppure chiacchiero, pigramente, con la confidenza tipica di questi luoghi.
Di sicuro, non penso più.
E, una volta fuori, quando torno nel caos del mondo, mi porto dietro i sapienti torpori che gesti antichi incastrati nel tempo non ci hanno fatto dimenticare.
I bambini curdi di Suleymanyie, III
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- Martedì, 14 Gennaio 2014
"E invece la meraviglia sei tu, Aleyna. Sono i tuoi occhi che sembrano una una piena, le tue mani agili come coriandoli. È il modo in cui apri il mio ombrello di plastica azzurra e ci trovi dentro un mondo intero".
Arte e umorismo a Gezi Park : la danza dei sufi
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- Sabato, 11 Gennaio 2014
11 gennaio 2014
Quello di Gezi non è stato solo un movimento di protesta. È stata anche un’adunata spontanea dalla quale sono nati gesti solidali, fantasiosi, umoristici, e perfino performance artistiche.
Si è sviluppata, da subito, una sorta di “creatività estetica” del movimento che ne è diventata la narrazione, il registro specifico. L’immaginazione, insieme al il taglio romantico e artistico della protesta, l’ha distinta dai movimenti di piazza del resto del mondo, specialmente da quelli della primavera araba a cui spesso la protesta di Gezi è stata accostata.
Ci sono stati momenti difficili da dimenticare, per il loro impatto suggestivo e per il messaggio forte che hanno incarnato. Come, ad esempio, la danza sufi dei dervisci rotanti inscenata da alcuni manifestanti, che sul volto indossavano una maschera antigas.
Per molto tempo in Turchia i sufi sono stati considerati eretici. Nel 1925 le loro tekke (i monasteri in cui i sufi celebrano la sacra danza rituale, il sema) sono state chiuse da Atatürk che ha messo al bando le confraternite durante il processo di modernizzazione laica della Turchia. Ovviamente, neanche in quei periodi i sufi hanno mai smesso di danzare insieme al suono del ney e della musica rituale.
In seguito riammessi, i dervisci rotanti da sempre hanno esercitato, con il loro misticismo, un’enorme influenza. Malgrado le proibizioni dell’Islam sulla musica e sulla danza, i dervisci hanno fatto di questi strumenti la chiave per aprire la porta verso la comunione con Dio.