Gezi Park e la rivolta di Taksim. Cronaca di sabato 6 luglio 2013.
In principio fu un albero. Poi quell’albero è diventato una foresta, e quella foresta un pianeta.
Quando l’ho scritto, a soli quattro giorni dall’inizio della rivolta di Gezi, non ero sicura che sarebbe stato così. Ma avevo fiutato qualcosa, lo avevo sentito nell’aria. E infatti, è solo l’inizio.
Questo è l’incipit di una storia che si sta scrivendo sulla pelle di chi la vive.
Tornata di nuovo da Istanbul, dopo un mese da quelle giornate, posto una serie di foto bellissime pubblicate dal Guardian.
Narrano i giorni di Gezi, hanno la forza del racconto fermato nel tempo immobile.
Ci sono i poliziotti che sparano gas e cannoni ad acqua, i bambini con le mascherine, le donne che fronteggiano la violenza della polizia. Ci sono frammenti della storia che sta cambiando la Turchia.
C’è quello che ho visto sabato 6 giugno, quando ero lì anche io.
Ma le mie foto non sono ancora pronte, sono una che ama i rullini vecchia maniera, quelli che tolgono nitore alle immagine e le fanno volare verso il cielo del sogno.
Pochissimi scatti fatti con la mia digitale. Uno di questi, è quello che apre questo racconto.
Quando mi imbatto nelle foto del Guardian mi rendo conto di come restituiscano esattamente quell’attimo. Le condivido su facebook. Occupy Gezi, Taksim Solidariety. Sono realtà, ormai. Non sono più soltanto raduni spontanei.
Poco dopo, sulla chat, mi raggiunge Nejat. Ci siamo conosciuti sabato, in un vecchio negozio di macchinette fotografiche usate. Nejat ha vent’anni e un’aria gotica deliziosa: pallido, dinoccolato, magrissimo, con ossa di vetro, è un gran sognatore.
Si vede subito. Ha in mano una Zenit. Una di quelle macchine che non avevano neanche il riavvolgimento elettrico. Pochi, fra noi, ricordano la levetta da girare freneticamente fino allo scatto che indicava il termine dell’operazione. Un gesto perduto, come perdute sono molte cose nel tempo. Siamo lì, fra vecchie lenti, obiettivi, flash e rullini. Non trovo un altra Chinon, uguale a quella che mi hanno rubato, ma compro una Zenit, anche io. Le macchine fotografiche russe sono come i loro proprietari: cocciute, d’acciaio, resistenti alle bufere, al freddo, al gelo. Penso ai colbacchi, ai servizi segreti, agli Zivago e agli zar. Qui non nevica, fa un caldo infernale. Ma la Zenit è la macchina adatta.
Nejat scatta fotografie sognando un mondo migliore.
Ecco, Nejat,forse qui, nella tua città, adesso, stanno provando a costruire un mondo migliore.
Lui non vuole venire alla manifestazione delle sette di sera, a Taksim. È titubante.
Sa che vuol dire essere segnalati dal governo, sa come questo può compromettere il suo futuro.
Ma non resiste al richiamo di Gezi. Non resiste alla voglia di esserci.
Andiamo insieme, ma subito veniamo separati dalla folla, dalla gente in corsa. Non sono neanche le sette e Istiklal è già percorsa dai Toma, i blindati che sparano cannoni ad acqua, e dai gas lacrimogeni. Ci dividiamo fuggendo. Io mi riparo in un negozio, Nejat finisce altrove. L’ultima immagine che ho di lui è la sua figura magra magra arrampicata su uno scalino, intenta a scattare una foto al blindato che si avvicina mentre intorno a lui la gente scappa.
Basterebbe un soffio, a buttarlo giù. Un soffio leggero come un sussurro. Invece sta per arrivargli addosso un cannone ad acqua. Mi infilo nel primo negozio insieme a donne e bambini. Chiudono la saracinesca ma ecco che un gas lacrimogeno striscia fino all’interno. Mi colpisce gli occhi, i polmoni. Brucia, brucia tutto. Ho la gola in fiamme. Le lacrime che mi scendono sulle guance sembrano pioggia acida. Vedo un bambino in braccio a sua mamma che strilla, con gli occhietti chiusi. Un ragazzo, un attivista, gli spruzza addosso un liquido bianco. Lo fa con amore, con compassione. Ne spruzza un po’ addosso anche a me. Ci guardiamo, scoraggiati.
Com’è diversa, la realtà, dalle immagini della televisione.
Adesso so esattamente che odore ha il gas, come pizzica sulla pelle, come incendia gli occhi, come blocca il respiro. So che vuol dire chiudersi in un posto e attendere che la furia della polizia passi altrove. So che vuol dire sentirsi improvvisamente tutti fratelli, uniti da un tempo e un luogo che ci ha fatto incontrare nella fuga da questa follia. C’è una solidarietà più potente e invasiva di ogni gas. Entra ovunque. E invece di intossicarti i polmoni, si sistema nel cuore. E non se ne va più. Mette radici forti, forti come quelle degli alberi di Gezi, le stesse radici che adesso tengono uniti alla terra della resistenza tutti i manifestanti, tutti i cittadini in rivolta.
È una solidarietà che sconfigge ogni gas.
Ci guardiamo, fra le lacrime, in una muta comprensione.
Quando il pericolo cessa, esco di nuovo all’aperto. Istiklal Caddesi è adesso una zona di guerra.
Sono le sette di sera e sembra il giorno dopo l’Apocalisse. Fumi, getti d’acqua, e quell’odore nauseante, l’odore del gas. Nelle nebbie irreali i passanti si affrettano. Le divise nere della polizia macchiano il bianco dell’aria, il bianco del gas.
Per tre ore, non farò altro che fuggire in locali e negozi per proteggermi, tornando in strada appena possibile. Gli attivisti sfidano la polizia. Ma lo fanno con le parole. Non usano armi.
Cantano. Taksim ovunque. Sì, Taksim è ovunque. Taksim è in ognuno di noi. Taksim è ovunque ci si ribelli al potere, al dominio, all’autorità. Taksim è la scintilla che infiamma l’anima.
I poliziotti passando veloci, con scudi, maschere antigas e manganelli. Mi avvicino e li fotografo.
Non mi dicono nulla.
Fanno paura. Hanno facce cattive, come quelle che vedi nei film. Mi sforzo di pensare a Pasolini e a Valle Giulia, ma non mi aiuta. Rimango così, con le immagini degli orchi cattivi.
Perché cattivi, loro, lo sono davvero. Stanno sparando gas in tutta la zona. Una furia inarrestabile che intossica mamme, anziani, bambini.
Piazza Taksim e Istiklal corrispondono, per intenderci, a Piazza del Popolo e Via del Corso.
È come se la polizia invadesse il centro alle sette di sera, di un sabato pomeriggio qualunque, perché alcuni manifestanti si sono spinti verso Villa Borghese, vietata a ogni protesta e raduno.
E allora ecco che arrivano i bulldozer, i gas, i getti d’acqua. Invadono la città e la mettono a ferro e fuoco.
E uccidono i cani, i gatti e gli uccelli. Guai a toccare anche gli animali, a Istanbul. Sono amati, protetti, rispettati. Ma finisce tutto nella mischia, finisce tutto travolto dal gas.
Sembra una guerra. Sento gli spari con cui i bulldozer lanciano contro “il nemico” le loro armi.
I manifestanti indietreggiano, poi avanzano ancora. Un braccio di ferro lento, inesorabile. La polizia li disperde ma loro tornano, tornano ancora.
Davide contro Golia. Ma Davide non cede, non si stanca, non molla.
Quando il gas si dilegua, ecco che dai vicoli riemergono le facce di uomini, donne, ragazzi. E tornano, tornano ancora in mezzo alla strada, e sfidano di nuovo la polizia. Il volto di Atatürk sventola sulle bandiere, con il suo sguardo giovane, giovane come i giovani turchi che vogliono fare la loro rivoluzione. Ma non è la lotta di Atatürk contro Erdoğan. La faccenda p molto più complessa.
Ci sono atei, musulmani anticapitalisti, comunisti, ecologisti, studenti…
Una massa eterogenea, che sfugge a ogni definizione compatta. Sono loro, i çapulcu. Cantano, di nuovo, e ballano. E la polizia, di nuovo, lancia fumogeni.
All’ennesima fuga mi rifugio in un ristorante. Il gas arriva dentro, lo spazio sottile che separa la porta dal pavimento non basta a proteggerci. Gli occhi stavolta non reggono, li chiudo, istintivamente me li stropiccio. Ecco allora che un uomo, un cameriere, mi stacca velocemente la mano dagli occhi, mentre capisco, subito, che cosa ho fatto: ho peggiorato la situazione toccandomi il viso con parti del corpo contaminate.
Troppo tardi. Mi siedo, aspetto che passi. Un dolore assurdo, che fa impazzire. Vicino a me c’è una signora, una giapponese, probabilmente, con gli occhi sbarrati, distesa su una panca lunga. Mi guarda con gli occhi spalancati, la sua faccia è crepata di dolore e di angoscia. Tossisce, si piega in due, come se stesse per vomitare. Deve aver preso tanto, tantissimo gas. Alcuni si coprono il volto con un fazzoletto. Il proprietario del locale mi invita a bere yogurt. Sono tutti gentili.
Quel posto diventa il mio rifugio per almeno un’ora. Quando i Toma, i blindati, passano, spruzzano, colpiscono, scappiamo tutti all’interno. Poi usciamo fuori. Poi di nuovo dentro.
Sembrerebbe quasi un gioco. Un gioco crudele e perverso, come quelli di alcuni bimbi. Ma non è un gioco. È la realtà.
Ogni volta che ci chiudiamo dentro, schiaccio la faccia sul vetro e osservo le pattuglie di polizia che corrono a caccia dei dissidenti. Tutti uniti, fianco a fianco, si muovo come fossero un unico corpo. Hanno scudi, maschere, elmetti, bastoni. Gli altri, i “vandali”, hanno solo le mani nude. E una mascherina per proteggere gli occhi. Alcuni, poi, non hanno nulla davvero. Li sfidano in silenzio, con gli occhi viola e il petto gonfio di nubi tossiche. Li guardano e nei loro occhi vibra tutto l’ardore di una ribellione infinita, con le sue onde che attraversano Istiklal e non si fermano, non si fermano mai.
Mentre bevo un po’ di tè offerto durante l’ennesima aggressione, all’improvviso capisco le parole di Ali, quando, i primi giorni di resistenza, mi diceva che avevano tutti scoperto il senso della solidarietà. Un affetto sconosciuto, finora, una forza ignota che all’improvviso li aveva collegati a uno a uno.
I negozianti che mi offrono riparo non sembrano affatto scocciati con i manifestanti. Anzi, li aiutano, li nascondono, li proteggono. Vedo le loro facce, vedo i loro volti quando passa la polizia.
Il popolo turco, sotto il gas, respira un’aria nuova. Scopre il sapore dell’unione, della lotta per un principio.
Poco mi importa se dietro ci sono i piani internazionali per piegare Erdoğan. Ogni ribellione ha sempre avuto anche strateghi occulti. Non è la prima volta. Non lo sarà mai.
Ma incontro persone che lottano davvero per un’idea di giustizia, di democrazia.
Mi parlano, mi spiegano. Un ragazzo mi invita a comprare gli occhialetti di plastica, quelli da piscina, per fare un bel tuffo nel gas. Me li sistema, con premura.
Una donna, sulla sessantina, mi tira giù la canottiera che si è arrampicata sopra i reni. Sorrido. Perfino a Taksim, nel cuore modernissimo della città, arriva qualcuno e ti copre. Sono le mille contraddizioni della Turchia.
La sera avanza e nessuno retrocede.
Non lo faccio neanche io. Ho perduto Nejat, non lo trovo più. Lo spero al sicuro perché sono iniziati gli arresti.
Decido di lasciare Istiklal per andare da Doğa, che lavora in un locale poco distante. Mi avventuro nei vicoli incrociando poliziotti e manifestanti in fuga.
Il locale è vuoto, naturalmente. Con Doğa parliamo, come sempre. Parliamo molto.
Mi dice una cosa molto importante, dice che capisce, ora, cosa significhi essere accusati di terrorismo sempre e comunque. Comprende il senso comunitario che crea. Mi piace, questa riflessione.
Di certo, questa esperienza mescola e cambia ogni pensiero. Cambia anche me.
Mi allontano nella notte a malincuore. Non voglio essere arrestata. Ho le mie macchine fotografiche. Vengo spesso in Turchia, una volta al mese, più o meno. Ho scritto un libro su Istanbul. Sono iscritta all’Ordine dei Giornalisti. Straniera.
Basta poco, qui, per essere dei terroristi.
A Sultanahmet, dall’altra parte della città, tutto tace, in un silenzio irreale. Questa è Istanbul.
Ma non mi piace, questa atmosfera indifferente. Forse perché ormai ci sono dentro fino al collo.
E in hotel, con gli occhi che ancora lacrimano, penso ai miei amici, alla loro lotta.
Penso a Nejat, che non voleva neanche venire. Mi sento in colpa. Spero stia bene.
Il giorno dopo lascio di nuovo Istanbul insieme a un pezzo di cuore, come sempre.
E finalmente, in chat, mi raggiunge Nejat.
È diventato un çapulcu. Mi scrive ubriaco di ribellione. Felice.
È stato in prima linea fino all’alba, fino al mattino. E, d’ora in poi, ci sarà. Sarà con loro, con gli attivisti.
A un certo punto Nejat sulla chat mi scrive: “La foto del Guardian! Quello sono io!”
Si riferisce a un link che ho appena condiviso.
“Quale, Nejat?” “La numero 5!”
Guardo meglio. È vero. È lui. È quel ragazzo piegato, fra i poliziotti. Quello che sta tossendo, coperto da un fazzoletto sul visto.
Mi racconta di come lo abbiano buttato a terra e di come sia stato salvato da un gruppo di ragazzi che lo hanno tirato via.
Non sono sorpresa. Il filo del destino che mi collega a Istanbul è sempre presente. Nulla è a caso, mai. Nejat doveva incontrarmi, nel negozio di fotografie. E scoprire la sua anima ribelle.
E io dovevo trovare quelle foto del Guardian, e scegliere proprio quelle fra milioni di foto pubblicate sul web.
Funzionano così, i legami sottili tra le cose e le persone, tra i destini degli universi che non conosciamo. E spero che il destino aiuti e protegga tutti quei “terroristi” che si stanno battendo per la democrazia. Inşallah.