Marocco, i volti dell'anima.
Il nuovo reportage narrativo e fotografico
“Quale campo tendato preferisci, Francesca? Quello con i comfort o quello selvaggio?”
“Quello selvaggio, Faysal. Quello selvaggio”
Non immaginavo, in quel momento, che il campo tendato fra le dune del Sahara sarebbe stato solo il battesimo di un’avventura molto più complicata, ed estrema.
A volte l’universo scombina i nostri piani. Ha altri progetti per noi. Traffica con i nostri programmi, li scompone e li ricompone a suo piacimento. Sempre, però, ripercorrendo il disegno, ne troviamo il senso e la direzione.
Ho deciso di tornare in Marocco dopo due anni. Volevo conoscere meglio la terra dell’indaco, dell’ocra, dei rossi che bruciano il cielo al tramonto, prima che la notte baci la terra...
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Presentazione de La mia istanbul
L'11 Aprile, a Roma.
Da Gezi Park alle elezioni, si raccontano Istanbul e la Turchia.
Turchia, Gezi Park: Il mio nome è Ali Ismail Korkmaz
Si chiamava Ali Ismail Korkmaz. Aveva solo diciannove anni e implorava i suoi assassini di smetterla, ma loro continuavano a massacrarlo di botte. Era il 2 giugno 2013, e anche a Eskişehir, in Anatolia, si manifestava per Gezi Park. Ma era arrivata la polizia, e aveva attaccato.
Ali Ismail tentava di difendersi da quel gruppo di uomini in abiti civili che lo colpivano, chiedeva loro di smettere. Ma quando lo hanno fatto, era già troppo tardi. Intervistato da un giornale locale, un testimone, che vuole mantenere segreta la sua identità, racconta di averlo visto a terra, esanime, livido per i colpi cruenti alla testa e alla schiena. A un certo punto è svenuto, e solo allora hanno smesso. Quando, lentamente, Ali Ismail ha ripreso coscienza e si è mosso, un uomo ha cominciato a picchiarlo di nuovo. Alla fine lo hanno lasciato andare via, barcollante, tremante.
Ali Ismail però aveva un’emorragia cerebrale. È stato operato, ma non ce l’ha fatta: la sua vita si è spenta il 10 luglio, dopo trentotto giorni di coma.
Ali Ismail Korkmaz. Uno studente qualunque, uno dei tanti ragazzi che sognano un paese più libero e democratico, è morto così. È morto per un pestaggio, in un vicoletto.
Quel giorno intorno a lui c’erano, fra gli aggressori, anche alcuni poliziotti in borghese.
Il principale imputato è Mevlüt Saldoğan, un agente che avrebbe sferrato il colpo mortale.
Otto le persone coinvolte, fra poliziotti e civili.
Uno degli imputati sostiene che Mevlüt Saldoğan avrebbe chiesto a lui e ad altri civili di bloccare quel ragazzo che, in fuga dai gas lacrimogeni, cercava rifugio nelle stradine laterali. Così la polizia avrebbe potuto “colpirlo con i manganelli”, come stava facendo con gli altri manifestanti. Ecco che allora due uomini hanno fermato Ali Ismail, intrappolandolo. Non hanno partecipato al pestaggio, sostengono. Hanno “solo” catturato un loro concittadino, disarmato, per farlo picchiare. Uno di loro, uno che aveva soltanto un’idea diversa di libertà.
Ali Ismail è stato dunque fermato e un gruppetto di persone, fra cui alcuni poliziotti in borghese, lo ha picchiato, senza pietà. Calci, pugni, manganellate addosso a uno studente disarmato. In testa, nelle gambe, sulla schiena. È svenuto e, quando ha ripreso conoscenza, è stato picchiato ancora.
E pensare che Erdoğan ha lodato la polizia, la scorsa estate, per “l’eroismo” dimostrato.
Ma se è eroismo attaccare con violenza manifestanti indifesi, colpirli a distanza ravvicinata, minacciarli e picchiarli a sangue all’interno dei pullman, coprire le videocamere di sorveglianza disposte lungo le strade per cancellare le prove, allora dobbiamo rivedere, tutti, il significato di questa parola.
La lista degli abusi compiuti nei giorni di Gezi Park è lunga, come denuncia anche il rapporto di Amnesty International.
Stavolta gli “eroi” di Erdoğan non sono stati immortalati da una foto che ha fatto il giro del mondo, come nel caso di Ceyda Sungur, la ragazza in rosso, l’icona di Gezi Park, ma sono stati ripresi da alcune videocamere. Tuttavia i video, sequestrati dalla polizia, risultano danneggiati. Altre videocamere in quel momento non riprendevano nulla. Il sospetto di prove scomparse, manomesse, distrutte, rende i fatti ancora più gravi. Ma malgrado la cancellazione, le immagini di una telecamera a circuito chiuso, grazie all’intervento del pubblico ministero che è ricorso a un gruppo di esperti, sono state ripristinate. E ora sono in mano all’accusa. Rappresentano una delle prove fondamentali.
Se le altre riprese che avrebbero dovuto mostrare i fatti sono misteriosamente inesistenti (c’erano diverse videocamere in azione quel giorno, ma la polizia ha dichiarato che sono state involontariamente danneggiate dai Toma, i blindati), sul quotidiano Radikal spunta un altro video, rintracciato da un reporter che segue il caso: si vedono alcuni uomini in borghese fermare i manifestanti e colpirli. Fra loro, quel giorno, c’era anche Ali Ismail.
Ora, finalmente, il processo.
I testimoni, quella sera, non sono intervenuti. Avevano paura di essere picchiati, anche loro. In silenzio,spaventati, hanno visto Ali Ismail allontanarsi lentamente, barcollando.
All’ospedale, dove era andato per farsi curare, Ali Ismail è stato liquidato dal dottor Hasan Gülcü perché a suo dire non aveva nulla di grave. Unica prescrizione, alcuni antidolorifici. Nonostante gli evidenti segni dei traumi e delle percosse, non è stato curato. Gli è stato detto che sarebbe dovuto tornare con una denuncia formale fatta alla polizia, visto il suo caso.
Tornato a casa, dopo un sonno profondo si è svegliato e ha realizzato di non poter più muovere bene la lingua, racconta il fratello. È tornato in ospedale ma, di nuovo, gli è stato intimato di andare prima dalla polizia per una denuncia. Così ha fatto.
Questa, la sua testimonianza: “Cinque o sei persone sono venute da me, mi hanno picchiato sulla testa, sulla schiena, sulle spalle e sulle gambe. Sono caduto a terra. Ieri non avevo difficoltà a parlare, ma oggi non riesco a ricordare bene. Non ho più un dente. Mi fa male la testa. Non so chi mi ha picchiato o perché. Erano persone in abiti civili. Voglio fare una denuncia”.
Poi di nuovo in ospedale dove, finalmente, è stato visitato in modo adeguato. Gli è stata diagnosticata un’emorragia cerebrale.
Ali Ismail è stato operato, ma non si è svegliato mai più.
La sua storia, insieme a quella di altre vittime, è stata raccontata a voce alta dagli attivisti di Gezi Park che, la scorsa estate, hanno improvvisato raduni sugli autobus, nei bar, nei parchi. Per informare, per denunciare.
Il suo volto è stato disegnato sui muri della città, è comparso sui poster e sui manifesti che hanno accompagnato le manifestazioni. Lui ha partecipato alle proteste così, fermo nello scatto di una fotografia, con i suoi occhi scuri come i fondi di caffè nei quali, in Turchia, si legge il futuro. Ma non ci sarà più nessun futuro, per lui. Solo un buco nero, senza fondo, che l’ha inghiottito e se lo è portato via.
La foto di Ali Ismail è stata condivisa nei profili facebook di tutto il mondo, accompagnata dalla scritta: “My name is Ismail Korkmaz. Plainclothes police allegedy beaten me on June 2. I stayed in coma for 38 days. Today I am dead”.
Su twitter, l’hashtag #AliIsmailKorkmaz da mesi raduna foto e aggiornamenti sulla sua vicenda.
I suoi parenti, loro, non mollano.
Da Eskişehir il processo, fra molte critiche e lamentele, è stato spostato nella cittadina di Kayseri, sempre in Anatolia, per “motivi di sicurezza”.
È il 3 febbraio e la gente attende l’inizio, in piazza. Una piazza piena. Un gruppo di attivisti grida slogan di protesta. Chiede giustizia, quella giustizia che spesso, troppo spesso, sembra avere due pesi, due misure diverse.
“Ali Ismail burada! Bilal nerede?” “Ali Ismail è qui, dov’è Bilal?” Il riferimento è al figlio del primo ministro, sospettato di essere coinvolto negli scandali che recentemente hanno travolto il governo con una sorta di “Tangentopoli” turca.
La famiglia di Ali Ismail è stata accolta con affetto e calore, gente di ogni tipo gli si è radunata intorno, quasi a proteggerla, mentre varcava la soglia del tribunale. Nessuno, da mesi, dimentica il dolore di sua madre, quella donna che, con il viso circondato da un foulard, gira le piazze stringendo sul petto la foto del figlio. Puntando la fotografia in direzione degli imputati, in tribunale li ha apostrofati così: “Come avete potuto uccidere mio figlio in quel modo? Ora come potete guardare dritto negli occhi i vostri figli?”.
Di sicuro non esita, lei, a guardarli negli occhi.
Non ha pace, ha la forza implacabile di una madre ferita, possiede l’energia disperata di un’anima infranta per sempre.
Fuori, moltissimi cittadini attendono. E, con loro, attende tutta la Turchia. Perché questo è uno di quei processi che “scottano” nelle mani della giustizia.
Ali Ismail è una delle vittime di Gezi Park, e Gezi Park è ormai un simbolo nella coscienza dei turchi. Bisogna farci i conti, da qualunque parte dello schieramento si stia.
Duemila poliziotti, i Toma e gli elicotteri in volo indicano, inequivocabilmente, l’impatto massiccio di questo processo.
All’inizio ci hanno provato, hanno provato a far credere che i colpevoli fossero altri, ma l’Associazione Avvocati di Eskişehir ha raccolto una serie di prove robuste.
Gli accusati però sostengono di non aver provocato lesioni letali. Giurano, si difendono.
Non sarà un processo facile. Questo è certo.
Ma i cittadini che attendono, in piazza, fuori dal tribunale, sono in tumulto.
Perché non si può morire a diciannove anni solo per aver partecipato a una protesta, senza aggredire nessuno.
Non si può essere inseguiti, feriti, colpiti a morte, solo per condiviso con altri un sogno di democrazia e libertà.
Ali Ismail è morto insieme al suo sogno. Noi invece siamo vivi, e non dobbiamo smettere di sperare in un mondo migliore. Anche se a volte è difficile. Terribilmente difficile.
Istanbul, il "caldo" weekend di Piazza Taksim
“Internetime dokumna!”, “Don’t touch my internet!”. Questo lo slogan che ha chiamato a raccolta, sabato scorso a piazza Taksim, centinaia di manifestanti. E, stavolta, al centro della protesta non c’era un parco, ma internet.
La commissione parlamentare ha infatti approvato un progetto di legge con il quale il governo potrà esercitare un controllo fortissimo su tutta la rete.
La proposta, preparata dall’AKP (il partito di ispirazione islamica al governo), comporta, secondo le associazioni e i comitati cittadini in rivolta, il serio rischio di censura nei confronti dell’unico mezzo di informazione davvero libero che, non a caso, è stato lo strumento privilegiato di comunicazione e diffusione delle informazioni durante la rivolta di Gezi .
La scorsa estate, il Primo ministro Erdoğan aveva condannato l’uso dei social paragonando twitter alla “peggior minaccia di una società”. Ma è proprio grazie alle notizie, foto e video pubblicate sui social che gli attivisti turchi hanno scavalcato il bavaglio dei media portando l’attenzione su quanto stava accadendo.
La rete e le manifestazioni di Gezi Park sono collegate a doppio filo. Internet ha avuto un ruolo centrale nelle proteste. Lo sanno le opposizioni, lo sanno i manifestanti. E lo sa il governo.
Sabato scorso la gente, in piazza, si è quindi ribellata ad un rafforzamento del controllo sul web. Quel web che oggi, nelle società di tutto il mondo, è sintomo e simbolo, più di ogni cosa, della libera espressione di una democrazia, agevolata da una informazione in tempo reale capace di anticipare le notizie filtrate dei media tradizionali.
Dunque, un tema particolarmente scottante in una Turchia scossa, dopo i fatti di Gezi, dagli eventi che hanno visto protagonisti diversi esponenti del governo, travolti dallo scandalo che ha portato a un forzato rimpasto nell’esecutivo.
Se la proposta diventerà legge, al governo sarà possibile impedire l’accesso ad alcuni siti web senza passare per la magistratura.
Le aziende che ospitano i siti web dovranno inoltre aderire a un nuovo organismo, posto sotto la verifica diretta del ministero, che attraverso una banca dati potrà controllare, per due anni, le pagine visitate dagli utenti turchi.
Decisamente troppo, per un paese già in netta difficoltà nell’espressione libera delle divergenze. E così, il 18 gennaio, a Istanbul come in altre città, compresa la capitale Ankara, i cittadini si sono riuniti per manifestare.
Era dai tempi di Gezi che a piazza Taksim non si vedeva un raduno di simili proporzioni. In piazza sono scesi a migliaia.
Non sono mancate le solite scritte umoristiche che, come sempre, caratterizzano queste manifestazioni. Alcuni hanno mostrato cartelli che facevano il verso al premier ridicolizzando la sua pretesa di controllare la rete: “tayyp:// ”, recitavano.
Ma dietro gli scherzi c’era molta, moltissima tensione e timore. Youtube, il quinto sito per numero di visite nel paese, in passato è già stato bloccato più volte. L’hashtag dell’evento, #18Ocak18DeSokaklara, lanciato in rete, ha immediatamente raccolto moltissimi accessi e condivisioni mentre in piazza, la polizia, come al solito disperdeva la folla ricorrendo a un massiccio uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Non sono mancati gli arresti, naturalmente.
E tuttavia quella folla radunata a Taksim non era violenta, ancora una volta era la popolazione civile: uomini, donne, ragazzi che hanno chiesto rispetto per la loro libertà, per il loro spazio privato, individuale.
Non credono alla scusa di un controllo maggiore sulla pedofilia, per tutelare i minori, credono invece che l’azione moralizzatrice di Erdoğan continui a usare l’Islam per rafforzare, in realtà, il potere del premier. Che in questo modo avrebbe una scusa “legale” per mettere a tacere voci scomode, dissidenti. Specialmente ora che si avvicinano le elezioni amministrative e nell’AKP la tensione sale dopo la scissione di Fetullah Gülen.
Di certo, nelle prossime settimane si tornerà a discutere di web e dei provvedimenti che, in un momento delicato come questo, somigliano davvero a una censura.
Il lungo weekend in piazza, intanto, è proseguito domenica 19 gennaio per ricordare l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso sette anni fa davanti al palazzo del giornale che dirigeva, il settimanale Agos, da un nazionalista diciassettenne, Ogün Samast, condannato a più di ventidue anni di carcere.
Turchia, Gezi Park: giustizia per la "ragazza in rosso"
Il suo nome è Ceyda Sungur, studentessa. E' diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza di Gezi contro le imposizioni del governo e le aggressioni degli agenti. Ora la procura di Istanbul ha chiesto tre anni di carcere per il poliziotto che le ha sparato il gas da distanza ravvicinata.
Una ragazza, in un parco. Indossa un abito rosso, leggero, come la giornata di primavera che sparge intorno i raggi di sole. Davanti a lei, un poliziotto le scarica addosso con violenza, a distanza ravvicinata, una dose massiccia di gas lacrimogeno mescolato con agenti irritanti.
Lei si gira per proteggersi mentre i capelli e il vestito si sollevano per la forza d’urto e l’uomo continua, continua ad attaccarla, non molla.
Il parco è quello di Gezi.
Il nome di questa ragazza è Ceyda Sungur, ed è una studentessa. Diventata famosa, suo malgrado, durante i giorni della resistenza contro le cariche degli agenti. I fatti sono avvenuti il 28 maggio 2013.
E questa immagine, catturata da video e fotografie, è diventata una delle icone del movimento Gezi Park.
Foto e illustrazioni che ritraggono la scena sono comparse ovunque, l’hanno riprodotta, e moltiplicata. Sui manifesti, sui giornali, sui libri. Un’immagine che ha scosso, ed emozionato, il mondo intero.
Perché è una delle immagini che testimoniano, con molta eloquenza, gli abusi della polizia contro i cittadini inermi, disarmati.
L’unica arma di Ceyda era la sua voce, innalzata, insieme alle altre, in difesa del parco. Ma soprattutto, in difesa dei principi della democrazia.
Contro la furia del poliziotto è rimasta lì, in piedi, senza armi, senza protezioni.
Il contrasto tra la sua figura femminile, con il vestito rosso che svolazza intorno alle gambe, e l’immagine del poliziotto armato, protetto da scudi, maschere antigas ed elmetto, ha rivelato - più di qualunque parola di denuncia - la brutalità di un attacco spropositato.
Ora la “donna in rosso”, come è stata chiamata finché i giornalisti non hanno scoperto il suo nome, ha finalmente avuto giustizia.
L’agente (la stampa turca lo indica come F.Z.) è ritenuto colpevole di aver violato le regole per l’uso del gas durante i movimenti di protesta, avvicinandosi a meno di un metro e puntando dritto al volto della ragazza.
Né prima né dopo quell’attimo immortalato nella fotografia, Sugur ha mostrato alcun proposito di aggressione.
La sua è stata una resistenza pacifica. E adesso, finalmente, quella resistenza pacifica le è stata riconosciuta.
Il poliziotto, ventitreenne, rischia tre anni di prigione, riporta l’agenzia stampa Doğan.
Per una volta, sembra che la polizia sia rimasta scoperta.
Quella foto rimarrà nella mente di molti come simbolo, come icona rappresentativa di una protesta in cui i cittadini hanno mostrato volti molto diversi da quelli dei “terroristi” evocati da Erdoğan.
Una riflessione si impone. Grazie al contributo dei presenti che hanno scattato foto, girato video, affiancando il lavoro del giornalismo tradizionale, è stato possibile mostrare una realtà che sconfessava le dichiarazioni governative. Sono state le fotografie di gente qualunque, spesso, a testimoniare gli eventi.
Sicuramente ci sono stati episodi violenti anche da parte di alcune frange di manifestanti. La verità non è mai monolitica.
Ma questa immagine dimostra, nel suo misto di crudezza e innocenza, la capacità di un popolo di sollevarsi senza usare le armi, senza ricorrere all’aggressione.
Quei giorni, a Gezi, hanno evidenziato il potere di migliaia di cittadini scesi in piazza disarmati, diversi, ma uniti, estremamente uniti.
E stavolta, chi sta dall’altra parte dovrà pagare.
Perché la legge del più forte non vince sempre e comunque. Non stavolta, almeno.
L'hamam e il tempo circolare (1)
La prima volta in un hamam ti resta addosso per sempre. E' come una crepa nel tempo ordinario. In questa grotta umida, al riparo dalla frenesia della città, dai suoi clacson, dalle urla caotiche, dai tumulti moderni della vita che corre, si vive una dimensione diversa. Qui il tempo cessa di essere la linea retta che immaginiamo per curivarsi disegnando una circonferenza infinita. La mente si fa liquida, diventa un lago calmo in cui evapora ogni tensione.
La mia prima volta è stata a Süleymaniye. A pochi passi dalla moschea, in una stradina sterrata e fatiscente, come molte strade della Istanbul vecchia, una piccola porta rivela l'accesso al paradiso. Questo è l'unico hamam, in città, che purtroppo permette la presenza contemporanea di uomini e donne. Una scelta commerciale, turistica. Ma ha una pietra bollente che squaglia ogni tensione e riduce il volume di tutti i pensieri, ne annulla il peso specifico.
Gli arredi sono in legno, con un grande lampadario centrale e una scala che conduce al piano superiore dove sono disposti gli spogliatoi, stanzette dotate di chiave che l'ospite, tramite il cerchietto di ferro al quale è agganciata, si infila al polso e tiene con sé.
Sono stata accolta con un sorriso in cui si raccoglie tutta la sapiente ospitalità dei turchi. Il rituale di preparazione consiste nell'indossare buffi zoccoletti chiamati takunya.
Il corpo si è steso nella grande pietra centrale, in attesa di insaponature e massaggi. E mi sono goduta il mio hamam.
Ma, dopo le prime volte negli hamam, preferisco optare solo per la sosta in mezzo ai vapori, con il calore che mi circonda il collo, le braccia, le gambe, fino a raggiungere la cupola di pietra antica dalle cui finestrelle di vetro fa capolino un pezzo di cielo. Niente massaggi, o saponi. Solo la sospensione del fare.
Se per caso la permanenza in questo ozio dolcissimo coincide con il richiamo del muezzin, allora la pietra diventa un tappeto magico in volo verso le stelle.
Certo, un hamam misto, come quello di Süleymaniye non è un vero hamam. E' come se la modernità volesse intrufolarsi in tradizioni che non le appartengono, violetandone la natura profonda.
Preferisco andare negli altri hamam della città, per questo. Ma ci torno, comunque, perchè adoro la sua pietra particolarmente bollente.
E adoro perdermi nelle anse del tempo.
Sono diventata un'assidua frequentatrice degli hamam. Ci vado da sola, o con le mie amiche turche.
Galleggio, così. Senza pelle, senza pensieri, senza colori. Il corpo perde materia mentre il silenzio si fa quasi solido, in una sorta di inversione che confonde gli stati ordinari.
Negli hamam, mi godo il silenzio.
Oppure chiacchiero, pigramente, con la confidenza tipica di questi luoghi.
Di sicuro, non penso più.
E, una volta fuori, quando torno nel caos del mondo, mi porto dietro i sapienti torpori che gesti antichi incastrati nel tempo non ci hanno fatto dimenticare.
I bambini curdi di Suleymanyie, III
"E invece la meraviglia sei tu, Aleyna. Sono i tuoi occhi che sembrano una una piena, le tue mani agili come coriandoli. È il modo in cui apri il mio ombrello di plastica azzurra e ci trovi dentro un mondo intero".
I bambini curdi di Suleymaniye, II
11 gennaio 2014
"Prima di andare via faccio un ultimo scatto al viso di Pervin, fermo nel tempo i suoi occhi acuti di piccola donna che conosce già la complessità della vita. Mi allontano girandomi un'ultima volta verso la sua maglietta rossa che brilla nella notte come un fuoco acceso. Vorrei che a bruciare sotto le stelle fosse la fiamma della speranza".
Arte e umorismo a Gezi Park : la danza dei sufi
11 gennaio 2014
Quello di Gezi non è stato solo un movimento di protesta. È stata anche un’adunata spontanea dalla quale sono nati gesti solidali, fantasiosi, umoristici, e perfino performance artistiche.
Si è sviluppata, da subito, una sorta di “creatività estetica” del movimento che ne è diventata la narrazione, il registro specifico. L’immaginazione, insieme al il taglio romantico e artistico della protesta, l’ha distinta dai movimenti di piazza del resto del mondo, specialmente da quelli della primavera araba a cui spesso la protesta di Gezi è stata accostata.
Ci sono stati momenti difficili da dimenticare, per il loro impatto suggestivo e per il messaggio forte che hanno incarnato. Come, ad esempio, la danza sufi dei dervisci rotanti inscenata da alcuni manifestanti, che sul volto indossavano una maschera antigas.
Per molto tempo in Turchia i sufi sono stati considerati eretici. Nel 1925 le loro tekke (i monasteri in cui i sufi celebrano la sacra danza rituale, il sema) sono state chiuse da Atatürk che ha messo al bando le confraternite durante il processo di modernizzazione laica della Turchia. Ovviamente, neanche in quei periodi i sufi hanno mai smesso di danzare insieme al suono del ney e della musica rituale.
In seguito riammessi, i dervisci rotanti da sempre hanno esercitato, con il loro misticismo, un’enorme influenza. Malgrado le proibizioni dell’Islam sulla musica e sulla danza, i dervisci hanno fatto di questi strumenti la chiave per aprire la porta verso la comunione con Dio.
Rumi, Francesco d'Assisi e l'Uni-verso.
Chi, come Rumi, ha compreso lo spirito e trasceso la lettera, trova un linguaggio universale capace di parlare al cuore di tutti. Quel linguaggio che le religioni spesso faticano a trovare, impegnate a creare confini invece di abbatterli, ritenendo che ognuna sia la migliore, ognuna sia quella che detiene la verità assoluta.
Il misticismo, da sempre, rappresenta invece il veicolo sublime che ha unito l’Ovest e l’Est, l’Oriente e l’Occidente, facendolo sconfinare nell’Uni-verso. Un solo verso.
Ecco perché il linguaggio di tutti i mistici è così simile, ovunque, e così vicino. Abbatte le distanze che le religioni hanno costruito fra loro, le scavalca, diventa un ponte.
Dalla “notte buia dell’anima” di Giovanni della Croce alla povertà di Francesco d’Assisi fino ai versi di Rumi, che nelle sue poesie mistiche focalizza nel cuore l’unica, vera, religione possibile.
“Vieni, chiunque tu sia. Vieni. Sei un miscredente, un idolatra, un ateo? Vieni. Il nostro non è un luogo di disperazione, e anche se ha violato cento volte una promessa… vieni”.
Nel medioevo, un uomo persiano, vissuto e morto in Turchia, a Konya, anticipava così di secoli i movimenti spirituali che avrebbero rivendicato l’unità e l’uguaglianza dei vari messaggi racchiusi in tutte le religioni.
Ecco perché, all’interno di una moschea oppure smarriti nelle meraviglie del gotico, o, semplicemente, in un deserto, è possibile captare qualche segreto di quel “linguaggio alato” finalmente senza confini, etichette, attestazioni di verità.
Non è un caso che, mentre la Bibbia e il Corano possono indurre a temere un Dio che può essere anche vendicativo, che punisce chi si allontana dal giusto cammino tracciato per lui dalle Sacre Scritture, i mistici descrivono un Dio pieno d’amore verso il quale si percepisce il trasporto di un coinvolgimento incondizionato, reso libero da ogni tipo di provenienza, di dogma e di credo.
Ecco perché i sufi, ieri come allora, continuano ad affascinare tutti i cercatori sinceri. E quei curiosi che, nel loro viaggio di ricerca, vanno a caccia di analogie privilegiandole alle differenze.
Francesco D’Assisi e Rumi sono due fra gli uomini che forse ci hanno regalato di più, in questa direzione.
“Inchinati, lui è un derviscio”, disse la madre , una donna sufi appartenente a un ordine persiano, a un amico del quale, per rispetto e protezione, taccio il nome.
Lui era ragazzino ed era andato, con la mamma, ad Assisi. Si è inchinato, ha pregato davanti a quel derviscio d’Occidente con cui la donna avvertiva tutta la forza di una fratellanza universale.
Non ci pare strano dunque il fatto che, così come Rumi è amatissimo ovunque, richiamando ogni anno migliaia di persone in Turchia, sulle sue tracce, papa Francesco, che ha volutamente preso quel nome per testimoniare un messaggio preciso, sia così apprezzato a ogni latitudine e longitudine.
Abbiamo tutti bisogno di ponti, e non di barriere.
(articolo creato l'11 gennaio 2014)
A Istanbul, da Galata a Taksim. Soprese dietro il vecchio tram.
7 gennaio 2014
C'è un vecchio tram, che collega Galata e Taksim, dal sapore retrò. Racconta di tempi passati e di antiche suggestioni. In mezzo alla folla di Istiklal Caddesi, si fa annunciare con il suo suono particolare che si staglia sopra il vociare di turchi e turisti, un brusio costante, che nasce al mattino e muore soltanto all'alba, quando gli ultimi estimatori della movida notturna rientrano a casa insieme ai pensieri (spesso alcolici) sul giorno nascente.
Questo suono particolare, che sa di momenti remoti, appoggiati in qualche angolo di un tempo trascorso troppo velocemente, annuncia il vecchio tram rosso.
Al suo interno, fatto tutto di legno, c'è chi preferisce sedersi comodamente piuttosto che attraversare a piedi la distanza fra Galata e Taksim.
Molti turisti, al suo arrivo, si fermano di lato al tram e scattano fotografie. Ma l'aspetto più interessante del vecchio tram si rivela soltanto...dietro. Aspettate il suo passaggio, e poi guardate proprio lì, dietro.
Nella parte posteriore, gruppetti di scugnizzi turchi, così simili, per birberia e simpatia, ai ragazzini napoletani, approfittano del passaggio gratis attaccandosi alla portiera oppure installandosi, in modo spesso acrobatico, nello spazio sopra le ruote.
E da lì ridono, scherzano, ammiccano.
Per chi ama la fotografia e ne apprezza la scrittura di luce, capace di cogliere narrazioni fugaci che scompaiono in pochi secondi, è un'occasione meravigliosa.
Si ha a disposizione pochissimo tempo, ma, se si riesce, di catturano momenti quasi perfetti.
Momenti che raccontano di un quotidiano che mescola antico e moderno, con un pizzico di ironia.
Alcuni ragazzini posano per i turisti più accorti, quelli che si accorgono della loro presenza e tirano fuori in tempo la macchinetta.
Ma, spesso, si rubano attimi inconsapevoli, portati via al tempo e consegnati alla fissità della memoria.
Quante volte, all'inizio, ho visto davanti a me lo scatto perfetto, quello che attendi sempre, come un surfista in cerca della sua onda. Ma è passato in fretta, troppo in fretta.
Poi ho imparato a girare con la mia vecchia analogica sempre a portata di mano, indossata al collo (detesto questo segno di riconoscimento dello "straniero", che ti qualifica immediatamente come "turista", ma è l'unico modo per essere pronti quando, davanti, compare la tua foto, quella che cerchi, quella che ti tracconta molto più di mille parole.
Tra l'altro, l'analogica permette di fotorafare molto rapidamente, oltre a conservare felicemente le suggestioni che nessuna digitale potrà riprodurre, con il nitore tagliente dei sui pixel, con i suoi trucchi vintage che allontanano il profumo di verità dallo scatto.
Ecco perché amo le vecchie pellicole. E i vecchi laboratori di foto usate che si trovano a Sirkeci.
Così come amo, ogni volta che capito a Istikal, scoprire chi si è appostato dietro il vecchio tram.
E provare a catturarne un dettaglio.
Istanbul. Capodanno a Taksim? No grazie.
2 gennaio 2014
E’ così bella, Istanbul, di notte.
Mentre osservo le luci, vicine e lontane, la pioggerella che batte si trasforma quasi in una carezza. “Neanche la pioggia ha così piccole mani”, scriveva E.E.Cummings. Di sicuro, questa sera, le mani che mi scivolano sulla testa e sul viso sono delicate, leggere, prudenti. In lontananza, la sponda europea. Davanti a me, il Bosforo, imponente, sontuoso, scuro come la notte che mi gira intorno, quasi a cercare il riparo da tutte le luci che si moltiplicano all’infinito. E’ la notte di Capodanno. Respiro l’aria che trasporta il sale del mare mentre le ore avanzano e Kadiköy saluta un altro anno che se ne va, magari a bordo di uno dei traghetti che collegano le sponde della città. Da Kadiköy sto per andare a Taksim, nella Istanbul europea. Mi piace, l’idea di un Capodanno passato in mezzo ai mondi. Ma non mi piace lasciare la casa di Denise, dove ho cenato fra regali, sorrisi, manicaretti turchi e tanta, tantissima umanità. Se si ha la fortuna di avere degli amici, qui a Istanbul, l’ultimo dell’anno diventa un’occasione preziosa per gustare l’intenso, speziato cuore dei turchi. Se poi hai amici italo-turchi, e questi amici hanno radici che vanno dall’Anatolia alla Puglia, allora la combinazione diventa felicemente esplosiva. Al molo, ho penso alle tavolate festose che raccontano la calda accoglienza dei turchi, che circonda il cibo con affetti, sorrisi, empatia. E una rara, scintillante semplicità. Hanno il sapore buono del cibo di un tempo, questi raduni. Non sono contaminati dall’individualismo moderno, sono rimasti piacevolmente fedeli alla dimensione affettiva della comunità. Come nel nostro Sud. A casa di Denise, dalla sua famiglia, sono stata accolta come una di loro. Ho mangiato, sorriso, scherzato. E, purtroppo, ho fatto anche una figuraccia. Non sapevo che i turchi usano scambiarsi fra loro i regali il 31 dicembre. E così, io ero a mani vuote mentre ricevevo il mio regalo: un set di accessori per fare lì hamam. Lo sa, Denise, che sono fissata con gli hamam. Sa che ogni volta che vengo mi dondolo nel tempo immobile di questi luoghi capaci di regalare una fuga dalle ansie del mondo.
Non avevo nulla, io. Solo un dolce di cioccolato comprato da Mado, una catena locale. Ma la prossima volta porterò loro dei pensierini italiani. Mentre ricevevo il mio regalo, mi sono sentita parte di questa grande famiglia allargata. Già, allargata, perché a casa di Denise, oltre a suo marito, suo padre, e un’amica che vive da loro, ci sono tre cani e un esercito di gatti. Ognuno speciale, ognuno con il suo carattere, con le sue abitudini. Mentre guardo il Bosforo ripenso a tutti i felini che affollano la casa di Denise e di suo marito Semih. Ce n’è uno sordo che, almeno nella notte di Capodanno, diventa un privilegiato: botti e festeggiamenti non sono un problema. Se ne stava lì, a tavola, immerso nel suo mondo senza rumori. In mezzo al silenzio delle sue orecchie, però, spuntano due occhi, di diverso colore, che quando ti guardano ti bucano il cuore. Sono loro, questi occhi, a “sentire”.
Me ne stavo lì, a ridere, brindare, discutere. Perfino la politica ha trovato un buchetto in cui infilarsi anche in quel giorno. Ma è bello confrontarsi con le idee diverse dalle tue, è l’unico modo per non restare chiusi nel recinto stretto di convinzioni che hanno comunque bisogno di un contrappeso, di un’altra campana. I monologhi rimangono confinati nelle certezze sterili di chi teme l’insinuarsi del dubbio. Quel dubbio che, alla fine, è uno dei nostri maestri migliori.
Perché si cresce nel dialogo, si matura nel confronto aperto, serrato. E si torna a casa con un pezzettino di ricchezza in più.
Ma è Capodanno e dopo un po’ la politica ha lasciato finalmente che a parlare fossero la pasta, i meze, i polli, le cipolline caramellate, le patate al tonno, le olive e tutte le prelibatezze cucinate da Denise e dalle sue amiche. E, come condimento su tutto, l'ironia fruttata di Alpay, che di nuovo mescola il Sud italiano alla Turchia generando deliziosi sapori supplementari.
Ridiamo, ridiamo tanto.
Mi commuovo quando Semih, con un brindisi, vuole ricordare la mamma di Alpay e Denise, che se ne è andata poco più di un anno fa. "Mi manca, mi manca davvero", dice Semih prima di cominciare a mangiare. E sento che lo dice dai profondi, segreti oceani del cuore.
Spesso le suocere sono poco amate. Sono considerate invadenti, fastidiose. Specie da noi, dove le mamme covano i loro pulcini tutta la vita, senza mai mollare la presa.
E invece a Semih manca davvero, questa donna che, a giudicare dalla luce della nostalgia che gli brilla negli occhi, doveva essere capace, con la sua presenza, di ravvivare ogni cosa.
Mi commuovo, sì. E cerco di non farlo vedere. E' questo il senso della famiglia, quello che unisce, con un legame invisibile, i presenti e gli assenti, risalendo i fiumi fino alle sorgenti dei nostri antenati.
Quando, dopo cena, osservo, in un angolo del salone, su un mobiletto, le foto in bianco e nero della famiglia di Alpay e Denise, penso che vorrò saperne di più, della storia di questa donna pugliese che per amore ha abbandonato il suo paese andandosene in terra turca. Una donna coraggiosa. Ci vuole coraggio, sempre, a cambiare. Ma la terra turca sa conquistare il tuo cuore, ti accoglie e ti abbraccia, se ti arrendi e ti lasci travolgere dalla sua festa dei sensi.
Così, a casa di Denise sembra di vivere la quintessenza dell'Italia bella, quella che sopravvive ancora nel ventre del Sud e di quella Turchia che vibra alle frequenze dei sentimenti profondi.
Mentre passeggio sulla riva del Bosforo ripenso a quella casa con nostalgia. Ho lasciato il suo tepore che ci avvolgeva tutti come un caldo mantello per andare a piazza Taksim. “Non andarci”, mi avevano detto ripetutamente Denise e suo fratello Alpay. “Non è bello, a Piazza Taksim. Vedrai!”
Ma dovevo scrivere un articolo, per una rivista, sul Capodanno di Taksim. A malincuore, sì, ma me ne sono andata per trascorrere lì il periodo dopo la mezzanotte, fotografando, raccontando. Sul molo di Kadiköy coppiette in festa passeggiano senza meta, altri affrettano il passo, diretti, probabilmente, a casa di amici. Ci sono luci, colori, odori. In aria osservo le lanterne volanti, che sollevano i desideri e li fanno transitare sulle ali del mondo, diretti lassù, dove qualcuno ascolterà, nei mondi invisibili, le nostre preghiere. La loro magia attraversa la notte. Bellissimo, questo Capodanno.
Ma quando arrivo a Taksim l’atmosfera cambia radicalmente. Per me, è quasi uno shock.
Mi aggiro per la piazza cercando di schivare le bottiglie rotte che fanno rumore sotto lo scalpiccio inquieto dei passi che solcano strade principali e secondarie. Intorno a me, una folla ululante, ubriaca, sguaiata. Nella notte di Capodanno, Taksim si trasforma e diventa il luogo d’incontro, e di scontro, di ragazzi sudaticci, dagli occhi liquidi, ebbri di alcol, pronti a molestare chiunque, specie una donna. Da Gezi Park fino a Istiklal un tappeto mobile, la cui trama è composta di carni, sudori e alcolici umori, forma una massa indistinta. Vicino a me, un paio di ragazzi in preda all’euforia etilica tentano, barcollando, di accendere una lanterna che non vuole sollevarsi da terra. Sono delicati, i desideri. Richiedono grazia e pudore, altrimenti non voleranno mai. E infatti restano lì, sul suolo, inceppati come il cervello sbronzo di chi prova inutilmente di sollevarli.
Intorno a me è tutto un vociare. Grida, gomitate, canzoni ubriache. Ma non è l’allegria sbarazzina di alcune urbiacature innocenti, gliardiche. C’è qualcosa di pesante, di greve. Ha a che fare con la violenza, con la bruttezza dell’umanità quando i suoi istinti peggiori hanno la meglio.
Alcuni hanno il volto coperto, indossano strane maschere bianche, spettrali. Sono le stesse maschere che ho visto addosso, recentemente, a quelli di Casa Pound durante una protesta, e non è un bel paragone. Una protesta. Sono stata qui, a Taksim e Istiklal, durante i giorni bollenti di Gezi Park. Ho passato la notte nel parco occupato, sono scappata dalla polizia che lanciava gas e cannoni ad acqua. Ma i manifestanti di Gezi sembrano usciti da un collegio oxfordiano rispetto all’umanità che affolla e sfianca questa notte. Non ho mai avuto, nei giorni di Gezi , lo stesso disagio e la stessa paura che avverto qui, adesso. Erdoğan si è sbagliato: sono questi, i veri çapulcular, i vandali che opprimono il quartiere con le loro insurrezioni. E’ in questo momento che sento tutta la bruttezza dell’umanità. C’è qualcosa di violento, volgare, in questa gente. Un fuoco basso, istintuale, che brucia ogni bellezza e la consuma. In questa massa però, alla fine, sono tutti soli. Avverto, con un brivido, la mancanza di ogni scambio reale e contatto: ognuno di loro è perso nel caos della sua testa, si è smarrito in un luogo nebbioso, senza sirene che segnalano la giusta rotta.
A Istkilal alcuni gruppetti si lanciano in danze tribali mentre le bottiglie rotte continuano a costeggiare la strada. Molti vomitano, senza neanche cercare un vicoletto nascosto.
“Maganda”, li aveva definiti Denise. Cioè “cafoni, tamarri, burini”. Forse è stata troppo buona. Questi, ripeto, sono i veri çapulcular. Vandali che fanno rumore per nulla.
E’ stanotte, che questa zona mi fa davvero paura. Cerco con lo sguardo la polizia. Ma non vedo nessuno. Sono in borghese, i poliziotti. Sono travestiti da civili e sorvegliano la notte degli incivili. Ora capisco perché nessuno dei miei amici frequenta questi luoghi la notte di Capodanno. Sono tutti altrove.
E anche io me ne vado. Sfuggo ai passi allungati che mi inseguono, schivo gli sguardi lascivi, le volgarità.
Mentre sto per raggiungere Galata sbatto su una coppia di turisti con una bambina. Ma che ci fa, qui, una bambina? Non è un posto per ragazzini. E neanche per turisti. Certo, loro se ne stanno lì, con i loro cappellini da babbo natale e le trombette, cercando di amalgamarsi con quella folla. Ma il mio consiglio, se mai scriverò l’articolo per la rivista in questione, sarà quello di evitare Taksim a Capodanno. Se non si ha la fortuna di avere amici turchi da cui farsi invitare, capaci di far vivere e brillare momenti di intensa umanità, allora è meglio andare nella parte asiatica, ad esempio, e passeggiare sul lungomare di Kadiköy. Oppure andare in altri luoghi della parte europea. Ma non qui, non a Taksim.
I turchi fanno tutto con il cuore. Sempre. Mettono avanti il cuore, e poi il cervello. Ma la notte di Capodanno, a Taksim, è sia senza cuore che senza cervello. Lasciamola a quelli che credono che lo sfogo di una notte sia sufficiente a colmare i vuoti scuciti nella negligenza dei giorni.
Gli altri stanno insieme fra loro, con la faccia in su, a guardare le lanterne nel cielo, o i fuochi d’artificio che accendono i ponti. Famiglie, amici, gruppi di ragazzini.
Alcuni gruppetti sorridono mentre specchiano i loro sogni nelle acque del Corno d’Oro o del Bosforo. Di sicuro sorrido io mentre, in volo verso l’Italia, sento i discorsi di due napoletane che lamentano l’assenza di donne a Istanbul. “In che senso, scusate?”, domando loro. “Beh, a piazza Taksim non c’erano molte donne, la notte di Capodanno”. Intanto, piazza Taksim non è tutta Istanbul. E poi, ci credo, che non c’erano molte donne. Rischiavano le molestie dei gruppetti che marciavano a braccetto, con le bottiglie sollevate in aria. Io c’ero, da sola. Ma, volentieri, mi ero allontanata al più presto. Per vedere le donne avrebbero dovuto passeggiare di giorno o di notte, in una qualunque notte dell’anno. Avrebbero visto la molteplice bellezza del femminile che anima questa città. Ma, il 31 dicembre, piazza Taksim appartiene solo ai maganda, come direbbe la mia amica Denise. Mutlu Yillar. Buon Anno.
Istanbul e la malinconia invernale
Quando si pensa a Istanbul, si immagina, di solito, il tramonto che incendia il Bosforo, sullo sfondo delle moschee. Non tutti sanno che, in realtà, d'inverno Istanbul è molto fredda, con il suo vento che soffia forte (e spazza via anche i pensieri) e la pioggia che cade abbondante. L'immaginario esotico di molti stranieri incontra dunque la realtà di una città in cui l'inverno si fa sentire, avvolgendo nel freddo i suoi abitanti. Tra dicembre e febbraio, inoltre, la neve copre volentieri il cielo che diventa di gesso.
Mi è capitato di girare più volte in una Istanbul stranamente silenziosa, leggera come i suoi fiocchi di neve, immersa nel bianco irreale che le dona i contorni sfumati di un sogno. Quella neve è diventa anche una bufera che punge gli occhi, pizzica le guance, ostacola il passaggio delle automobili imprimendo al traffico un'andatura lenta, leggera come piccoli passi d'uccello. La metropoli rallenta, il suo respiro si allunga sui palazzi, sulle moschee, sulla popolazione che si ripara sotto inutili e fragili ombrelli.
Com'è bella, Istanbul, in questi momenti. Rivela tutta la sua malinconia. Una malinconia dolcissima. Una tristezza lieve lieve, eppue persistente, come il profumo, nella memoria, di chi abbiamo amato.
Non invade, ma è sempre lì, pronta a farsi ascoltare dentro un sussurro.
Quando a Istanbul nevica la cosa migliore è girare, senza meta.
Le moschee sono così strane, immerse in quel bianco assoluto. Si avvicinano al cielo.
Il muezzin lancia il suo richiamo - che di solito associamo di solito al sole forte, ai colori speziati - che rimbalza di moschea in moschea e finisce nei flutti del Bosforo, il mare selvaggio che scorta i fianchi della città.
In questo bianco lo sguardo si perde, si infila nei vicoli, cammina e raggiunge il mare.
Sul Corno D'Oro, nei giorni di neve, perfino i pesci sembrano immobili.
Dolce, malinconica Istanbul.
Gli occhi si socchiudono gustando, all'interno di qualche locale, una tazza fumante di salep che profuma di buona cannella.
Fuori, è già sera.
Istanbul, a colpo d'occhio
17 dicembre 2013
Spesso, quando vado a Istanbul, le persone mi chiedono "Ma come ti trovi?", "Come si sta lì?".
Quasi dovessi andare in una cittadella popolata da un gente rozza e piuttosto arretrata. "Mamma li turchi", dice qualcuno, purtroppo senza scherzare.
Questo, però, è soltanto l'immaginario di alcuni italiani che nulla ha a che vedere con la realtà di una metropoli che viaggia alla stessa frequenza di Parigi, Londra, New York (Roma e Milano, non pervenute).
Fa parte di un certo humus culturale tipico del nostro paese, incapace, a volte, di uscire da un certo snobismo "provinciale" e di vedere che accade realmente fuori dal nostro paese. Paese che sta scivolando rapidamente verso condizioni terzomondiste, mentre altre realtà, come la Turchia, stanno crescendo rapidamente. Le ruote girano, e i paesi si trovano a vivere strane situazioni (basta pensare al flusso migratori di italiani verso il Marocco e il Brasile per capire i cambiamenti epocali in cui siamo immersi).
Ma torniamo a Istanbul, ancora impigliata, insieme alla Turchia, in una serie di pregiudizi tutti italiani.
Divertenti, a volte, se non lasciassero in bocca il sapore triste della miopia di vedute e pensieri.
L'anno scorso, svegliandomi in hotel durante il mio ennesimo viaggio, mi sono ritrovata addosso una fastidiosa congiuntivite.
Non si aprivano neppure, gli occhi. Incollatil letteralmente. Con una buona dose di fatica, ho finalmente afferrato l'ipad cercando di capire come trovare un oculista. Di ospedali internazionali ce ne sono diversi, a Istanbul. Lì è certamente più facile per chi, come me, non parla la lingua turca.
Così, indecisa fra quello americano e quello tedesco, ho optato per quello tedesco, certa forse di una "ferrea" risposta, efficace e precisa. Difatti, dopo solo mezz'ora ero già lì, con tanto di appuntamento, dottoressa turca e traduttore.
Ho pagato soltanto 80 lire turche, 40 euro, più o meno. Diagnosi, medicine ed educate raccomandazioni.
Sorrido, pensando al panico di certe persone quando mi immaginano in una Istanbul semideserta, quasi attraversata da unni a cavallo.
Nella modernissima Roma, in cui vivo, faticherei ad avere appuntamenti così precisi, in tempi così brevi, in ogni tipo di ospedale. Roma è una città che fa stagnare ogni energia, perfino quella più motivata, perfino quella figlia delle efficienze internazionali che approdano qui, nella capitale (e che rallentano, si avvitano, cominciano, anche loro, a girare in tono, come un criceto nella gabbia)
E penso a quanto tempo debba passare prima che alcuni pregiudizi si abbattano.
Nel frattempo, Istanbul cresce, la Turchia si rafforza. E l'Italia diminuisce.
Reportage: Ritorno a Gezi
29 novembre 2013
Esce oggi, per Osservatorio Iraq, il mio reportage: "Ritorno a Gezi "
i
La protesta, il racconto di alcuni protagonisti, gli abusi della polizia, le denunce di Amnesty. Cosa resta, oggi, di Gezi Park?
leggi il reportage:
Nazim Hikmet
Forse la mia ultima lettera a mio figlio Mehmet
Da una parte
gli aguzzini
ci separano come un muro
dall’altra
questo cuore sciagurato
che mi ha fatto un brutto scherzo
mio piccolo Mehmet
forse il destino
non mi concederà di rivederti.
Sarai già un ragazzo
biondo, snello, alto di statura
tale e quale una spiga di grano
come una volta lo sono stato anch’io;
i tuoi occhi infiniti, come quelli di tua madre
quello strascico amaro di tristezza
che alle volte li assale,
quella tua fronte chiara e senza fine
e quella bella voce
-in confronto la mia era davvero atroce-
Le canzoni che intonerai
spezzeranno i cuori,
sarai anche un brillante oratore
-in questo me la cavavo pure io,
quando ancora la gente non mi dava sui nervi-
dalle tue labbra colerà copioso il miele.
Ah, mio piccolo Mehmet
quanti cuori ruberai!
E’ difficile allevare un figlio senza padre
non rendere più duro il compito a tua madre
io di gioia non gliene ho potuta dare
dagliene tu per me, ti prego.
Tua madre
forte come la seta
tua madre
che sarà bella anche all’età delle nonne
come il primo giorno in cui la vidi
quando aveva diciassette anni
sulla riva del Bosforo…..
Non ho paura di morire, figlio mio;
però malgrado tutto
a volte quando lavoro
trasalisco di colpo
oppure nella solitudine del dormiveglia
contare i giorni è difficile
non ci si può saziare del mondo
Mehmet
non ci si può saziare.
La tolleranza
3 novembre 2013
Una città come Istanbul ti chiede di interrogarti sui pregiudizi. Lo fa facendo scivolare i punti interrogativi trasportati dal vento. Quel vento che ho imparato ad amare, a inseguire. Quel vento che si fa ascoltare. E penso a quanta intolleranza agita ancora i nostri destini. Qui, e ovunque. Ho imparato, però, che il bianco e il nero non sono assoluti, non bastano a manifestare la meravigliosa complessità del reale. Un dubbio perenne, che nella vita mi incalza. E qui, in questa città, diventa ancora più forte. Nei contrasti, negli opposti, vedo sstagliarsi l'inafferabile essenza della vita. Ogni volta che cataloghiamo troppo, perdiamo qualcosa. In mezzo al mare, nel Boforo, ritrovo, ogni volta, l'essenza.
La vecchia cartolina di mio padre
2 novembre 2013
Istanbul. Mi piaceva quel suono. A volte un amore comincia così, con un suono. Ero ancora una bambina quando vidi la cartolina che mio padre ci spedì dal suo viaggio in Turchia: cupole e minareti al tramonto, sullo sfondo di un cielo che incendiava lo sguardo in cui bruciava, fervida, la mia immaginazione.
Ogni tanto mi ritrovavo a pensare a quel magico nome. Istanbul. Ci sarei andata, un domani.
Ma il domani arrivò, e quel desiderio finì invece in qualche angolo dell’esistenza. Un giorno, molti anni dopo, Istanbul diventò finalmente la meta di un viaggio “in solitaria” per affrancarmi dai nodi che di solito, da adulti, ci trasciniamo dentro. Pesi che la vita ci ha costruito addosso, architetture edificate sulla nostra innocenza perduta.
Subito dopo i quaranta, poi, il futuro comincia a invertire il suo moto rispetto al passato: uno si accorcia e l’altro si allunga, mentre ti rendi conto che i ricordi finiscono sulla stessa linea immaginaria del sogno.
Un viaggio è il modo migliore per osservare da lontano le trame di cui è tessuta la nostra vita.
Ma se partiamo insieme agli amici, o al compagno, ci portiamo dietro un pezzo di casa che ci impedisce di misurarci con ciò che siamo diventati davvero. Il vero viaggiatore è sempre solo, me lo aveva insegnato Chatwin con le sue migrazioni inquiete, ribelli, stupite, sulle tracce che i grandi viaggiatori dell’Ottocento hanno lasciato nelle geografie di questo mondo.
Sì, sarei finalmente andata a Istanbul. E ci sarei andata da sola. Non era la prima volta che partivo senza compagni di viaggio.
Quel suono, Istanbul, si era depositato dentro di me fin dall’ infanzia. E io, ormai, me ne ero ricordata. Adesso batteva dentro di me come un cuore. Tum. Tum. Tum. Istanbul.
Ed è stato così che ho preso il mio primo aereo per la Turchia.
Il primo di tanti, dato che il mio incontro con questa città sarebbe diventato un appuntamento che avrei ripetuto più volte nel tempo.
Istanbul. Bisanzio. Costantinopoli. La Città delle città.
Prima della partenza non mi sono documentata sugli itinerari: in una città bisogna smarrirsi seguendo solo l’istinto.
Affidarmi a una cartina precotta, con le informazioni che altri hanno cucinato per noi, non rientra nei miei progetti di esplorazione.
Soltanto in aereo ho aperto a caso la guida che avevo portato con me. Così, tanto per orientarmi un po’. Il termine orientamento deriva da oriente, e la mia bussola stavolta puntava dritto a Est.
Non immaginavo, allora, che la mia sarebbe stata una storia d’amore. Non immaginavo di ritrovare, in una cultura completamente diversa, le mie stesse contraddizioni, le non appartenenze che hanno caratterizzato la mia esistenza vissuta all’incrocio di tutto, sempre attratta da opposte direzioni del sentimento. Istanbul non è solo un crocevia di tradizioni e culture, è anche una sfida continua ai nostri modi di pensare il mondo, di dividerlo in categorie.
Istanbul attira le anime complesse, attraversate da un vento simile a quello che soffia in questa frontiera fra i mondi. L’Oriente e l’ Occidente sono anche luoghi dentro di noi, rappresentano metafore audaci in cui la complessità del reale ci sfida, invitandoci a mettere in discussione le convinzioni nelle quali ci siamo rinchiusi.
Come sembriamo puerili, a volte, noi occidentali, con le nostre supponenze, le arroganze sulla libertà e l’individualismo. Penso alla parità estrema dei sessi che, alla fine, ha trasformato in maschi le femmine, e le femmine in maschi. Che dignità, invece, disegna i volti di alcune donne con la testa coperta dal velo e gli occhi che sono porte di cielo. A Istanbul camminano accanto alle femmine moderne, emancipate, che la sera si truccano, escono, indossano vestiti all’ultima moda e sorridono all’uomo piegando la testa all’indietro. I silenzi dei quartieri tradizionali mi incantano, mi seducono, è lì che mi sembra di afferrare Istanbul e tenerla accanto nel cuore. Ma poi lei scappa, fugge via, fugge a cercare le notti ebbre e scombussolate di Taksim dove si beve e si balla finché l’alba non spegne l’ultima stella. Nei suoi vicoli colorati di luci i ristoranti si succedono in fila ricordandomi quelli del quartiere latino, a Parigi.
Di notte, nel centro moderno, la vita brulica, ha fame di mondanità. Istanbul che non dorme mai, come New York. E in questa confusione cosmopolita mi sento a casa, mi trovo.
Preferisco però i languori degli hamam con la loro lentezza che scioglie il tempo. Le donne si lavano, si massaggiano fra loro in mezzo a confidenze femminili che nessun uomo saprà mai penetrare.
Istanbul abita il mistero. Si nasconde, svelandosi a poco a poco. E gira, gira come un derviscio scombussolando bussole e mappe.
Mi sento a casa, in questa frontiera appoggiata sul mare. Sul Corno d’Oro osservo il volo dei gabbiani che sfiorano l’acqua, madrina di ogni pezzo di terra che qui comincia e finisce. Rimane sempre segreto, il mare. E io, che in un posto di mare ci sono nata, so riconoscere il canto dell’acqua, so come suona. Qui la voce del muezzin si allunga e muore nei flutti per rinascere, salata e nuova, e cantare ancora. E arriva ovunque, trasportata dal vento. Nelle luci dei minareti Istanbul conserva la fiamma antica che arde accanto alla modernità insolente, sfrontata. Istanbul. Selvatica, indomita, sgangherata. Libera come i suoi giorni speziati, forte come i sapori del suo cibo servito con amore lento e paziente, come il kebap che gira sullo spiedo diffondendo nelle strade i suoi odori. A tavola la gente si guarda negli occhi e canta. Conosce ogni canzone suonata, la recita, la interpreta mettendosi le mani sul petto. E sorride, parla, gesticola. Se sei straniero cerca di fregarti, a volte, ma anche questo in fondo non mi dispiace perché se vedo l’ombra non ho mai paura che la luce sia finta.
Istanbul abbonda di case: case, case e ancora case, case ovunque dalle colline al mare, su e giù fra strade grandi e piccine. Mi ricorda un po' Napoli. Trasportata dal vento, la voce magica del muezzin diffonde ovunque il messaggio di Allah. Nelle moschee, scalza e profana, nascosta vicino alle donne mentre i miei ricci cercavano una via di fuga dal foulard troppo piccolo, mi sono immersa nelle sconosciute profondità della sua religione, rapita da una voce suadente.
L’ho sentita mia, Istanbul. Perché ho sentito la sua malinconia nascosta dietro i sorrisi, i colori, le danze. È la stessa malinconia di ogni anima che non si lascia addomesticare, che vive senza appartenere mai a nulla e a nessuno.
Il parere di Q Libri
la mia istanbul recensito e votato da Q Libri:
http://www.qlibri.it/narrativa-italiana/racconti-di-viaggio/la-mia-istanbul/
La mia Istanbul nelle Marche
6 ottobre 2013
Il 18 Ottobre a Senigallia (Ancona) presentiamo il libro insieme a Camillo Nardini. Se siete nei paraggi, passate a trovarci.
Gezi Park, da maggio a settembre
16 settembre 2013
In principio era un albero. Anzi, erano seicento alberi. Quelli di Gezi Park. Un parco che offre panchine, fili d’erba e canti di uccelli creando un’isola felice nel frastuono di piazza Taksim, con i suoi palazzi altissimi e il traffico del centro. Un giorno, quegli alberi sono diventati una foresta, poi la foresta si trasformata in una nazione, e la nazione è diventata un pianeta.
Una mattina di fine maggio, uno sparuto gruppo di persone si è accampato nel parco per difenderlo dalle ruspe, pronte alla demolizione degli alberi per fare spazio a un mall e un centro culturale. C’è chi dice che nelle intenzioni ci fosse anche la costruzione di una moschea.
Quelle persone sono state brutalmente assalite dalla polizia. Ma hanno chiamato rinforzi. Hanno diffuso la loro richiesta di aiuto su twitter, su facebook, sui telefonini. E la rete ha risposto.
Non erano più soltanto una decina di ecologisti in difesa di quel verde così fragile, in una Istanbul che si mangia tutti gli spazi verdi coprendoli con il cemento in cui si annusa l’odore dei soldi di costruzioni sempre più invasive ma assai redditizie.
All’appello son corsi in tanti. Tanti, e diversi fra loro. Hanno occupato Gezi e hanno anche occupato la loro mente con un sogno di libertà. C’erano, e ci sono ancora, ecologisti, attivisti, kemalisti, operai, studenti, attivisti di anonymous, semplici cittadini stanchi delle arroganze di Erdoğan che negli ultimi anni hanno preso una oramai evidente piega autoritaria e personalista.
C’erano, e ci sono, perfino gruppi di curdi, e di musulmani “anticapitalisti”, così lì hanno definiti. Musulmani che non vedono nell’Islam del premier lo stesso Islam che parla di povertà, sobrietà, oculatezza nell’approccio al denaro. Musulmani che seguono Allah ma non credono nelle scelte capitaliste di Erdoğan.
Hanno dormito nelle tende, si sono scambiati il cibo. Tra la fine di maggio e i primi di giugno è iniziata così una resistenza che avrebbe cambiato il paese, portandolo in direzioni nuove che ancora oggi stanno cercando una forma.
Io ero lì, per caso. Mi trovavo, come tante altre volte, nella mia amata città. Era il due giugno. Ma solo allora, solo quando sono arrivata, ho capito che stava accadendo. La protesta era diventata sommossa, la polizia aveva reagito caricando, usando gas lacrimogeni, bastoni, idranti. Migliaia di feriti, di arresti.
Mentre l’Europa si spaventava, a Istanbul mi accorgevo subito di come tutto fosse concentrato a Piazza Taksim e nella zona di Beşiktaş, dove si trovano alcuni uffici governativi. Intorno, il resto della città viveva, e attendeva. Attendeva che il disordine passasse. E invece, era soltanto l’inizio. Perché quando la violenza della polizia dilaga, quando ci sono di mezzo i morti, quando la gente viene portata via senza ragione, quando viene impedito perfino di parlare, allora nasce, dentro, una forza che dilaga e rompe ogni argine. Una forza che si chiama rabbia, e speranza. E che si raduna sotto l’ala magica della solidarietà. “Solidarietà, un qualcosa che fino a questo momento non avevamo mai conosciuto in modo così significativo”, mi racconta Ali mentre, seduti davanti a una birra a pochi passi da Istiklal, dove si issano barricate contro la polizia, cerca di raccontarmi gli eventi degli ultimi giorni. Lui è un giornalista, sa bene cosa sta succedendo. Nel suo sguardo brilla la speranza. È stanco, spettinato, non dorme da due notti. I suoi occhi sono due cerchi spenti solcati dall’insonnia. Ma è fiero, orgoglioso di partecipare. Entrambi guardiamo le persone che ci passano accanto: ragazzi e ragazze con le mascherine antigas, quelle che li fanno somigliare ai dottori degli ospedali.
Altri, i più combattivi, usano invece le maschere professionali, e girano come tanti Darth Vader, muniti di elmetti e sacche con medicinali. Passano veloci, e dalla loro velocità si intuisce la presenza della polizia. In lontananza, verso la piazza, vedo nubi di gas. “Non finirà qui, resisteremo”, mi dice Ali. Diren Taksim. Diren Gezi. Diventeranno frasi comuni, slogan di resistenza, nomi di gruppi su facebook e twitter. Ora quei nomi hanno volti e corpi che camminano, fuggono, sfidano la polizia. Il giorno dopo decido di arrivare fino al parco. È il 3 giugno. La polizia non sta attaccando, gli scontri sono concentrati a Beşiktaş. La piazza è gremita di gente. Mi colpisce la presenza di bambini, anziani, donne. Sulle facciate dei palazzi sventolano le immagini di Atatatürk, Deniz Gezmiş e Che Guevara. Simboli dl lotta, coraggio, resistenza. Simboli un po’ diversi tra loro, a dire il vero. Ma nelle giornate di Gezi Park sono tante le anime che si radunano e si battono insieme per uno scopo comune. Gli alberi sono solo la scintilla che ha appiccato l’incendio che ora divampa nel cuore delle persone. Ci si batte per la democrazia, per l’espressione democratica, per dire no alle politiche di costruzione selvaggia che rischiano di rendere Istanbul un gigantesco luna park affaristico in cui sono solo gli affari di alcuni, ovviamente, a beneficiarne mentre gli altri restano indietro, come sempre, come in tutti i capitalismi. Ma siamo in un momento cruciale, nel mondo. I capitalismi egoisti, indifferenti, sono costretti, ovunque, a fare i conti con le ribellioni.
Qui la rivolta si colora di Islam, naturalmente. Ma bisogna fare attenzione perché non è l’Islam a essere contestato ma l’uso che ne fa il premier. È questo Islam conservatore e allo stesso tempo capitalista, difficile da radicare nella laica Turchia, figlia devota di Atatürk. Difficile specialmente se si ricorre alla forza. I giorni di Taksim e Gezi Park si ripetono nei mesi di giugno e di luglio tutti uguali e tutti terribili: non appena un gruppo si riunisce per protestare, ecco che arriva la polizia e lancia tonnellate di gas lacrimogeno. Lo fa in pieno centro, di sabato, colpendo donne, bambini, ignari passanti. Mi sono trovata a scappare, travolta da una folla terrorizzata, mentre Istiklal si trasformava in un deserto spettrale, una specie di Avalon dalle cui nebbie sorgevano, invece di maghi e regni fatati, i blindati bianchi della polizia, pronti a colpire di nuovo.
Mentre fuggivo e mi riparavo nel negozio di turno capivo le parole di Ali, quando mi raccontava della solidarietà. Questa follia ti unisce, ti lega agli altri con un filo in cui basta uno sguardo a incollare un’intesa che va oltre le differenze di pensiero, di razza, di età. Ma il gas è subdolo, il gas penetra ovunque, e anche all’interno dei negozi ti senti male, gli occhi cominciano a gettar fuori lacrime di fuoco, i polmoni sembrano buchi colmi di veleno che non riesci a smaltire. Ricordo lo sguardo perso, e terrorizzato, di una donna giapponese, una turista, probabilmente, accasciata sul divanetto del ristorante in cui ci eravamo riparati. Vomitava, tossiva, apriva la bocca come un pesce preso all’amo alla ricerca di un respiro impossibile. In un ristorante, sfuggendo a un ennesimo attacco, un bambino e sua madre venivano soccorsi da un attivista che spruzzava nei loro occhi una sostanza calmante.
Istanbul, la rivolta dei colori
1 settembre 2013
Duecento gradini nel quartiere di Cihangir erano stati colorati. Tutti avevano pensato si trattasse degli attivisti, invece è stato il sessantaquattrenne Hüseyin Çelikel, un neoziante del luogo che ha semplicemente pensato che fossero più belli così.
E ha pensato bene. Purtroppo, però, la municipalità ha riportato gli scalini al loro grigiore quotidiano. Ma ecco che, di nuovo, scocca la scintilla e presto sia queste che altre scalinate, a Istanbul come ad Anakara E Diyarbakir, si accendono dei colori dell'arcobaleno. Domenica, a Istiklal, un gruppo i giovani ha dipinto su carta, per terra, nella giornata dedicata alla pace. Soffiano venti di guerra ma questi colori, un po' infantili, allegri, in cui i rosa danzano con i blu, i gialli e gli aranci, ricordano che si può sempre sperare.
A Istanbul come nel resto del mondo.
Le proteste di Istanbul, da duran adam, "the standing man", alle madri in piazza con i figli, hanno un accento romantico che non può non commuovere.
Ha il sapore buono delle ribellioni pacifiche, che contestano il potere trovando forme creative. E per questo ancora più "minacciose".
Perchè il potere odia la creatività, la fantasia. Detesta il sogno romantico. Perché sa che a volte può determinare...l'impossibile. Anche oggi. Adesso. Lì.
I curdi di Suleymanyie
8 agosto 2013
In un pomeriggio invernale scandito da un cielo di gesso che libera fiori di neve grandi come chicchi d’uva, incrocio un gruppo di ragazzini che si tirano addosso palle di ghiaccio. Hanno addosso vestiti un po’ trasandati in cui tuttavia alcuni dettagli svelano la premura di mani amorose che hanno cercato di combinare i colori, incastrandoli fra loro come pezzi di un puzzle in cui batte un cuore. La gioia scarmigliata contamina anche le donne che escono fuori al freddo e si uniscono alla guerra di neve, dimenticando il pudore davanti alla straniera che si ferma e li osserva con la stessa timida circospezione di un’ospite sconosciuto aggiunto per caso a una cena.
I ragazzini sono una banda compatta, maschi e femmine rapite dall’eccitazione che scalda l’aria attraversata da razzi di ghiaccio che decollano da manine sveltissime, mentre tutti girano come trottole senza direzioni e confini.
Guardo ancora i loro occhi e mi accorgono di leggerci storie che superano i limiti di una lingua diversa. E penso che la vera Babele non è nel linguaggio ma nella testa delle persone, negli steccati delle paure, dei pregiudizi con cui affrontiamo il “diverso”, privandoci di insospettate ricchezze.
Fra loro c’è Aleyna, una bambina curda che non supera i cinque anni, i capelli divisi in codine e la faccia sgranata sulla mia macchina fotografica con la quale si diverte a scattare fotografie senza logica e senso, girando intorno a se stessa come un derviscio. Sono belle, le sue foto: la vera arte nasce in fondo così, da un impulso caotico, da un disordine privo di schemi. Forse è per questo che in molti candidati alle suggestioni dell’arte la tecnica finisce per uccidere l’ispirazione. Non si impara, il talento. E non si compra, come l’amore.
Aleyna ruota e ride, ride e ruota, impegnata a catturare il mondo in frammenti . Somiglia a un cacciatore di farfalle mentre insegue le immagini che le svolazzano intorno a caso, poggiandosi sui fiori della sua gioia ebbra di vita. E’ felice per quell’oggetto che stringe a sé come il più prezioso dei tesori.
Gli altri bambini si dispongono in cerchio e mi sorridono trafiggendomi il cuore.
L’allegria di Aleyna esplode come botti a capodanno, prosegue, incalza, contamina i passanti, trascina la madre nella sua felicità.
Una macchina fotografica diventa un mondo, un luogo avventuroso di scoperte da trattenere il più a lungo possibile perché lei in fondo sa, sa che la straniera deve portarsi via la sua catola delle meraviglie. E invece la meraviglia sei tu, Aleyna. Sono i tuoi occhi che sembrano una luna piena, le mani agili come coriandoli, il sorriso fiducioso in cui la vita è sempre e comunque speranza. La meraviglia è il tuo fare infantile che si mescola a un guizzo adulto nascosto qua e là. E’ il modo in cui apri il mio ombrello di plastica azzurra e ti ci perdi dentro, in gioco che si incrocia perfettamente con la macchina che tieni in mano.
Me la riprendo, quella macchina, lasciando però una promessa a tua madre, sigillata in una lingua di gesti che tentano di versare il cuore nelle mani che stringo nel tentativo di farle capire.
Tento di regalare i soldi che permetteranno l’acquisto del magico oggetto ma la donna respinge la mia offerta con la ferma gentilezza di una dignità che, nel nostro mondo, abbiamo dimenticato, sempre pronti ad arraffare, a prendere, a contrabbandare, tesi verso l’ottenimento senza fatica.
Mi guardano, madre e figlia, salutandomi con le mani arrampicate sulla cima dell’ultimo sorriso mentre mi incammino sulla discesa, in direzione di Eminönü. Ho voglia di mare. Me ne vado seguita dai ragazzini più grandi, scendiamo insieme alcuni scalini schivando le insidie del ghiaccio. Tutto intorno, l’erba di cotone si arrampica fini ai muri di case semidistrutte. Malgrado la povertà evidente si respira un’atmosfera di pace, avvolta da un calore che spezza qualunque lingua di ghiaccio.
I bambini mi fanno cenno, invitandomi a fotografarli. Si dispongono sui gradini avvolti nelle sciarpe e puntano lo sguardo verso un orizzonte che sembra infilato in uno spazio senza tempo, gli occhi serissimi, lontani, affilati come spilli, la bocca seria in cui scompare il sorriso dell’infanzia , trasformato in una linea perfetta, geometria di voci adulte e remote.
Sembrano statue di sale incorniciate dal bianco che continua a cadere. Non stanno posando, non fanno “facce da fotografo” , come cantilenava la voce del film di Werner: nella loro immobilità perfetta sono spontanei, raccontano se stessi, la voglia di crescere, lo spazio fragile tra il mondo infantile e quello dei grandi che a un certo punto si assottiglia come una porta corrosa da un tempo precoce su cui sono passati, malgrado la giovane età, molteplici inverni e arsure estive.
Sono in cerca della loro storia, quella che scriveranno da grandi. Eccoli, piccoli adulti imbacuccati nei vestiti colorati, incuriositi dalla straniera con la macchina fotografica. Gliela consegno per lasciarli giocare ancora un po’, e di nuovo il sorriso di bimbo si allarga fino agli estremi del mondo mentre ci raduniamo in gruppetti per fotografarci a vicenda. Alcune donne si fermano, sorridono. “Kurdish”, dicono indicando i bambini e se stesse. Curdi, l’unica parola che riesco a capire. Curdi. Un suono senza terra.
Il suono di un popolo privato del diritto all’indipendenza, una ferita sparsa nelle geografie di altri, come la sua gente, la gente che vive sempre come un’eterna inquilina di troppo.
Mi vengono in mente alcuni versi di Hikmet, il poeta turco che amo da sempre, che si trovano nella lettera a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all'uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzitutto ama l'uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell'animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell'uomo”.
Alcuni sono condannati, invece, a vivere per sempre come inquilini. Sono coloro ai quali la terra è stata negata, e forse è questo che riassumono quei piccoli sguardi adulti, seri: la gioia di credere ancora al mare e alla terra sentendo però allo stesso tempo tutta la tristezza dell’uomo. Ma la loro è una malinconia fugace, sottile come un sussurro che increspa il mare; sta nella pelle, respira attraverso i pori senza mai invadere la vita di cui diventa l’ombra disegnata nei giochi di luce. Perché conoscono il sapore speciale dei momenti piccoli come spicchi di sogni rimasti sulla soglia del giorno. Episodi ordinari che accadono ogni giorno e di cui sanno ancora stupirsi.
Roger waters difende la protesta di Takism e Gezi park
5 agosto 2013
Another brick in the wall.
E un altro, e un altro ancora. Ma su un muro diverso. Il muro della giustizia, della solidarietà. Sempre, finché non sarà costruita una democrazia vera, solida, sana.
Roger Waters, a Istanbul, si schiera. Come tanti, famosi e non.
Impossibile non farlo. Lo scempio della polizia continua, la brusca aggressione alla libertà di parola miete vittime ogni giorno. A volte sono giorni gridati, che finiscono sulla stampa per arresti e uso di gas. A volte sono giorni silenziosi, fatti di drammi quotidiani, di incursioni della polizia che passano quasi inosservate ma che, costantemente, minano il diritto alla protesta.
Siamo liberi, tutti, di protestare. Ovunque. Non ci sono cordoni a delimitare i nostri spazi, se non usiamo violenza.
E siamo liberi di cantarla, la nostra protesta.
Rogers Waters è uno che se ne intende, di rivoluzioni. La sua, insieme a quella di tutto il gruppo, è stata una vera rivoluzione musicale, che ha cambiato per sempre un certo modo di suonare e cantare.
Nessuno scorda i Pink Floyd. Sono sempre lì, come il sole che nasce al mattino.
Conosce bene, Waters, la forza delle parole, dei gesti, dei suoni. Ci gioca, li lancia e loro rimbalzano nell’aria, si mescolano ai cori dei partecipanti, e tornano sul palco.
Taksim everywere. Shine on you crazy diamond. Taksim resi stance. Wish you were here. Tayyp, istifa. Help become comfortably numb. Together against fascism. Hey you, sitting out there in the cold, can you hear me? Tayyp winter is coming. We don’t need no education, we don’t need no thought control.
Suoni e parole di libertà. Un sapore meraviglioso, quello della libertà. Un qualcosa a cui tendere, sempre.
L’accusa alla polizia è stata chiara, netta, determinata. Waters ha parlato in turco, e ha reso omaggio a chi non c’è più.
Mi ha commosso, vedere i nomi e le foto dei ragazzi morti campeggiare nel muro. Sono loro, I mattoni del muro. Another brick in the wall. Un muro diverso, però. Il muro della solidarietà, della resistenza, della voglia di un futuro democratico, un futuro migliore.
Ethem Sarısülük, another brick in the wall
Ali İsmail Korkmaz, another brick in the wall
Abdullah Cömert, another brick in the wall
Mehmet Ayvalıtaş, another brick in the wall
Mustafa Sarı, another brick in the wall.
Another brick in another wall. The wall of solidarity, the wall of hope.
Democratica polizia?
24 luglio 2013
Erdogan difende l'operato della polizia. E compie un grosso errore. A Istanbul, dalla fine di maggio, è stata usata una quantità spropositata di gas lacrimogeno, per non parlare delle sostanze urticanti (jenix) usate nei cannoni ad acqua, delle persone picchiate, lasciate in carcere con le ossa fratturate, senza soccorso medico. Il quotidiano Hurryet Daily News riporta alcune frasi gravissime in cui Erdogan loda la polizia perché "ha risposto con ampia, democratica pazienza agli incidenti accaduti nelle città turche".
Ampia, democratica pazienza? Parliamo di violazioni importanti dei diritti umani, di lanci avvenuti a pochi metri di distanza dagli attivisti, che hanno provocato ferite gravissime. Di persone arrestate, come il nostro reporter, semplicemente perchè "c'erano", e magari stavano facendo il loro lavoro.
Non ho visto nessuna "democratica pazienza" a Istanbul, io.
Invece ho visto cosa è capace di fare, la polizia turca. E ho visto con quale esagerazione ha risposto a semplici raduni.
Una polizia che gassa mezza città, trasformandola in una nube tossica, non è una polizia che risponde in modo paziente.
Ma, quello che è ancora più grave, è la difesa di Erdogan, e duqnue la implicita autorizzazione, anche in futuro, a usare Toma, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e manganelli.
Intellettuali di tutto il mondo stanno protestando.
Dobbiamo farlo tutti, anche noi.
Chi sono i chapuller
Chi sono i çapulcu
22 luglio 2013
In molti mi chiedono perché mi sono schierata con i famosi çapulcu.
Per chi mi conosce, non è difficile immaginare i motivi. Sono sempre stata dalla parte dei ribelli, dalla parte di quelli che combattono per un mondo migliore. Perché sono una sognatrice anche io. Una romantica, probabilmente. Una che non smetterà mai di pensare che bisogna battersi per le idee.
Difendo la rivolta di Gezi Park perché l’ho vissuta sulla pelle, più volte. Ho parlato con i miei amici coinvolti, e con quelli che invece difendono Erdoğan. Si cerca sempre di capire tutte le sfaccettature della realtà, vagliando le ipotesi, cercando i bianchi e i neri, capovolgendoli, invertendoli.
Ma davanti alla ferocia della polizia, il nero diventa ancora più nero. E’ l’oscurità di chi usa la forza bruta contro una popolazione che si ribella in modo pacifico.
E che a volte usa perfino l’ironia. Ho letto scritte, in turco, che il cuore gentile di un amico ha tradotto per me.
Alcune riassumono perfettamente lo spirito di questa rivolta. “Lo spray al peperoncino rende la tua pelle più bella”. Ecco, rispondere con lo scherzo alla violenza. Un segno di grande civiltà.
Non si tirano pietre, qui, e non si incendiano auto e negozi.
Si resiste, in modo dignitoso, consapevole. E straordinariamente forte.
C’è un’energia, in questa Istanbul che vuole cambiare, capace di entrarti addosso e non lasciarti mai più.
La senti perfino mentre fuggi dai cannoni ad acqua e dai gas lacrimogeni. Ci si aiuta, si è complici, solidali.
Come sono ridicoli, i poliziotti, quando entrano nelle vie laterali di istiklal a cercare, con i loro squadroni, i çapulcu. Perché i çapulcu non sono terroristi armati con il viso nascosto. I çapulcu sono i negozianti, i clienti seduti ai bar, gli avventori. I çapulcu sono gli uomini e le donne che camminano passeggiando nella folla.
I çapulcu sono io, sei tu, siamo tutti noi.
Devono arrestarci tutti, abbatterci tutti, bruciare i nostri libri, piegare le nostre idee che, come diceva Falcone, uno dei nostri, pochi, veri eroi, continueranno comunque a camminare sulle gambe degli altri.
I çapulcu sono i cittadini che si sono svegliati, quelli che non vogliono un capitalismo mascherato da Islam che imponga loro le cose. Non bisogna cercarli nei loro rifugi, ci camminano accanto, ogni giorno.
Stanno cercando di dare un senso profondo alla loro rivoluzione.
Quando i poliziotti li cercano, sorrido quasi. Sono nascosti fra noi, perché siamo noi.
Noi che poco prima fuggivamo dal gas, e che torneremo a fuggire domani. Ma che leggiamo, ci informiamo, cerchiamo di usare le parole e non i muscoli, come loro, come i poliziotti.
I çapulcu hanno un’anima diversa l’una dall’altra e nelle loro differenze riconoscono la bellezza della diversità.
I çapulcu sognano un domani migliore. Un domani in cui si sia libertà di parola, in cui la stampa possa scrivere quello che vuole, in cui i gay possano camminare accanto ai religiosi senza sentirsi emarginati, in cui non ci siano imposizioni ma decisioni corali, in cui la polizia torni a fare il suo lavoro senza massacrare, arrestare innocenti, lanciare gas su mezza città solo perché qualcuno la pensa diversamente
Li ho visti, i çapulcu. E mi sono sentita una di loro.
Gezi Park e la rivolta di Taksim. Cronaca di sabato 6 luglio 2013.
In principio fu un albero. Poi quell’albero è diventato una foresta, e quella foresta un pianeta.
Quando l’ho scritto, a soli quattro giorni dall’inizio della rivolta di Gezi, non ero sicura che sarebbe stato così. Ma avevo fiutato qualcosa, lo avevo sentito nell’aria. E infatti, è solo l’inizio.
Questo è l’incipit di una storia che si sta scrivendo sulla pelle di chi la vive.
Tornata di nuovo da Istanbul, dopo un mese da quelle giornate, posto una serie di foto bellissime pubblicate dal Guardian.
Narrano i giorni di Gezi, hanno la forza del racconto fermato nel tempo immobile.
Ci sono i poliziotti che sparano gas e cannoni ad acqua, i bambini con le mascherine, le donne che fronteggiano la violenza della polizia. Ci sono frammenti della storia che sta cambiando la Turchia.
C’è quello che ho visto sabato 6 giugno, quando ero lì anche io.
Ma le mie foto non sono ancora pronte, sono una che ama i rullini vecchia maniera, quelli che tolgono nitore alle immagine e le fanno volare verso il cielo del sogno.
Pochissimi scatti fatti con la mia digitale. Uno di questi, è quello che apre questo racconto.
Quando mi imbatto nelle foto del Guardian mi rendo conto di come restituiscano esattamente quell’attimo. Le condivido su facebook. Occupy Gezi, Taksim Solidariety. Sono realtà, ormai. Non sono più soltanto raduni spontanei.
Poco dopo, sulla chat, mi raggiunge Nejat. Ci siamo conosciuti sabato, in un vecchio negozio di macchinette fotografiche usate. Nejat ha vent’anni e un’aria gotica deliziosa: pallido, dinoccolato, magrissimo, con ossa di vetro, è un gran sognatore.
Si vede subito. Ha in mano una Zenit. Una di quelle macchine che non avevano neanche il riavvolgimento elettrico. Pochi, fra noi, ricordano la levetta da girare freneticamente fino allo scatto che indicava il termine dell’operazione. Un gesto perduto, come perdute sono molte cose nel tempo. Siamo lì, fra vecchie lenti, obiettivi, flash e rullini. Non trovo un altra Chinon, uguale a quella che mi hanno rubato, ma compro una Zenit, anche io. Le macchine fotografiche russe sono come i loro proprietari: cocciute, d’acciaio, resistenti alle bufere, al freddo, al gelo. Penso ai colbacchi, ai servizi segreti, agli Zivago e agli zar. Qui non nevica, fa un caldo infernale. Ma la Zenit è la macchina adatta.
Nejat scatta fotografie sognando un mondo migliore.
Ecco, Nejat,forse qui, nella tua città, adesso, stanno provando a costruire un mondo migliore.
Lui non vuole venire alla manifestazione delle sette di sera, a Taksim. È titubante.
Sa che vuol dire essere segnalati dal governo, sa come questo può compromettere il suo futuro.
Ma non resiste al richiamo di Gezi. Non resiste alla voglia di esserci.
Andiamo insieme, ma subito veniamo separati dalla folla, dalla gente in corsa. Non sono neanche le sette e Istiklal è già percorsa dai Toma, i blindati che sparano cannoni ad acqua, e dai gas lacrimogeni. Ci dividiamo fuggendo. Io mi riparo in un negozio, Nejat finisce altrove. L’ultima immagine che ho di lui è la sua figura magra magra arrampicata su uno scalino, intenta a scattare una foto al blindato che si avvicina mentre intorno a lui la gente scappa.
Basterebbe un soffio, a buttarlo giù. Un soffio leggero come un sussurro. Invece sta per arrivargli addosso un cannone ad acqua. Mi infilo nel primo negozio insieme a donne e bambini. Chiudono la saracinesca ma ecco che un gas lacrimogeno striscia fino all’interno. Mi colpisce gli occhi, i polmoni. Brucia, brucia tutto. Ho la gola in fiamme. Le lacrime che mi scendono sulle guance sembrano pioggia acida. Vedo un bambino in braccio a sua mamma che strilla, con gli occhietti chiusi. Un ragazzo, un attivista, gli spruzza addosso un liquido bianco. Lo fa con amore, con compassione. Ne spruzza un po’ addosso anche a me. Ci guardiamo, scoraggiati.
Com’è diversa, la realtà, dalle immagini della televisione.
Adesso so esattamente che odore ha il gas, come pizzica sulla pelle, come incendia gli occhi, come blocca il respiro. So che vuol dire chiudersi in un posto e attendere che la furia della polizia passi altrove. So che vuol dire sentirsi improvvisamente tutti fratelli, uniti da un tempo e un luogo che ci ha fatto incontrare nella fuga da questa follia. C’è una solidarietà più potente e invasiva di ogni gas. Entra ovunque. E invece di intossicarti i polmoni, si sistema nel cuore. E non se ne va più. Mette radici forti, forti come quelle degli alberi di Gezi, le stesse radici che adesso tengono uniti alla terra della resistenza tutti i manifestanti, tutti i cittadini in rivolta.
È una solidarietà che sconfigge ogni gas.
Ci guardiamo, fra le lacrime, in una muta comprensione.
Quando il pericolo cessa, esco di nuovo all’aperto. Istiklal Caddesi è adesso una zona di guerra.
Sono le sette di sera e sembra il giorno dopo l’Apocalisse. Fumi, getti d’acqua, e quell’odore nauseante, l’odore del gas. Nelle nebbie irreali i passanti si affrettano. Le divise nere della polizia macchiano il bianco dell’aria, il bianco del gas.
Per tre ore, non farò altro che fuggire in locali e negozi per proteggermi, tornando in strada appena possibile. Gli attivisti sfidano la polizia. Ma lo fanno con le parole. Non usano armi.
Cantano. Taksim ovunque. Sì, Taksim è ovunque. Taksim è in ognuno di noi. Taksim è ovunque ci si ribelli al potere, al dominio, all’autorità. Taksim è la scintilla che infiamma l’anima.
I poliziotti passando veloci, con scudi, maschere antigas e manganelli. Mi avvicino e li fotografo.
Non mi dicono nulla.
Fanno paura. Hanno facce cattive, come quelle che vedi nei film. Mi sforzo di pensare a Pasolini e a Valle Giulia, ma non mi aiuta. Rimango così, con le immagini degli orchi cattivi.
Perché cattivi, loro, lo sono davvero. Stanno sparando gas in tutta la zona. Una furia inarrestabile che intossica mamme, anziani, bambini.
Piazza Taksim e Istiklal corrispondono, per intenderci, a Piazza del Popolo e Via del Corso.
È come se la polizia invadesse il centro alle sette di sera, di un sabato pomeriggio qualunque, perché alcuni manifestanti si sono spinti verso Villa Borghese, vietata a ogni protesta e raduno.
E allora ecco che arrivano i bulldozer, i gas, i getti d’acqua. Invadono la città e la mettono a ferro e fuoco.
E uccidono i cani, i gatti e gli uccelli. Guai a toccare anche gli animali, a Istanbul. Sono amati, protetti, rispettati. Ma finisce tutto nella mischia, finisce tutto travolto dal gas.
Sembra una guerra. Sento gli spari con cui i bulldozer lanciano contro “il nemico” le loro armi.
I manifestanti indietreggiano, poi avanzano ancora. Un braccio di ferro lento, inesorabile. La polizia li disperde ma loro tornano, tornano ancora.
Davide contro Golia. Ma Davide non cede, non si stanca, non molla.
Quando il gas si dilegua, ecco che dai vicoli riemergono le facce di uomini, donne, ragazzi. E tornano, tornano ancora in mezzo alla strada, e sfidano di nuovo la polizia. Il volto di Atatürk sventola sulle bandiere, con il suo sguardo giovane, giovane come i giovani turchi che vogliono fare la loro rivoluzione. Ma non è la lotta di Atatürk contro Erdoğan. La faccenda p molto più complessa.
Ci sono atei, musulmani anticapitalisti, comunisti, ecologisti, studenti…
Una massa eterogenea, che sfugge a ogni definizione compatta. Sono loro, i çapulcu. Cantano, di nuovo, e ballano. E la polizia, di nuovo, lancia fumogeni.
All’ennesima fuga mi rifugio in un ristorante. Il gas arriva dentro, lo spazio sottile che separa la porta dal pavimento non basta a proteggerci. Gli occhi stavolta non reggono, li chiudo, istintivamente me li stropiccio. Ecco allora che un uomo, un cameriere, mi stacca velocemente la mano dagli occhi, mentre capisco, subito, che cosa ho fatto: ho peggiorato la situazione toccandomi il viso con parti del corpo contaminate.
Troppo tardi. Mi siedo, aspetto che passi. Un dolore assurdo, che fa impazzire. Vicino a me c’è una signora, una giapponese, probabilmente, con gli occhi sbarrati, distesa su una panca lunga. Mi guarda con gli occhi spalancati, la sua faccia è crepata di dolore e di angoscia. Tossisce, si piega in due, come se stesse per vomitare. Deve aver preso tanto, tantissimo gas. Alcuni si coprono il volto con un fazzoletto. Il proprietario del locale mi invita a bere yogurt. Sono tutti gentili.
Quel posto diventa il mio rifugio per almeno un’ora. Quando i Toma, i blindati, passano, spruzzano, colpiscono, scappiamo tutti all’interno. Poi usciamo fuori. Poi di nuovo dentro.
Sembrerebbe quasi un gioco. Un gioco crudele e perverso, come quelli di alcuni bimbi. Ma non è un gioco. È la realtà.
Ogni volta che ci chiudiamo dentro, schiaccio la faccia sul vetro e osservo le pattuglie di polizia che corrono a caccia dei dissidenti. Tutti uniti, fianco a fianco, si muovo come fossero un unico corpo. Hanno scudi, maschere, elmetti, bastoni. Gli altri, i “vandali”, hanno solo le mani nude. E una mascherina per proteggere gli occhi. Alcuni, poi, non hanno nulla davvero. Li sfidano in silenzio, con gli occhi viola e il petto gonfio di nubi tossiche. Li guardano e nei loro occhi vibra tutto l’ardore di una ribellione infinita, con le sue onde che attraversano Istiklal e non si fermano, non si fermano mai.
Mentre bevo un po’ di tè offerto durante l’ennesima aggressione, all’improvviso capisco le parole di Ali, quando, i primi giorni di resistenza, mi diceva che avevano tutti scoperto il senso della solidarietà. Un affetto sconosciuto, finora, una forza ignota che all’improvviso li aveva collegati a uno a uno.
I negozianti che mi offrono riparo non sembrano affatto scocciati con i manifestanti. Anzi, li aiutano, li nascondono, li proteggono. Vedo le loro facce, vedo i loro volti quando passa la polizia.
Il popolo turco, sotto il gas, respira un’aria nuova. Scopre il sapore dell’unione, della lotta per un principio.
Poco mi importa se dietro ci sono i piani internazionali per piegare Erdoğan. Ogni ribellione ha sempre avuto anche strateghi occulti. Non è la prima volta. Non lo sarà mai.
Ma incontro persone che lottano davvero per un’idea di giustizia, di democrazia.
Mi parlano, mi spiegano. Un ragazzo mi invita a comprare gli occhialetti di plastica, quelli da piscina, per fare un bel tuffo nel gas. Me li sistema, con premura.
Una donna, sulla sessantina, mi tira giù la canottiera che si è arrampicata sopra i reni. Sorrido. Perfino a Taksim, nel cuore modernissimo della città, arriva qualcuno e ti copre. Sono le mille contraddizioni della Turchia.
La sera avanza e nessuno retrocede.
Non lo faccio neanche io. Ho perduto Nejat, non lo trovo più. Lo spero al sicuro perché sono iniziati gli arresti.
Decido di lasciare Istiklal per andare da Doğa, che lavora in un locale poco distante. Mi avventuro nei vicoli incrociando poliziotti e manifestanti in fuga.
Il locale è vuoto, naturalmente. Con Doğa parliamo, come sempre. Parliamo molto.
Mi dice una cosa molto importante, dice che capisce, ora, cosa significhi essere accusati di terrorismo sempre e comunque. Comprende il senso comunitario che crea. Mi piace, questa riflessione.
Di certo, questa esperienza mescola e cambia ogni pensiero. Cambia anche me.
Mi allontano nella notte a malincuore. Non voglio essere arrestata. Ho le mie macchine fotografiche. Vengo spesso in Turchia, una volta al mese, più o meno. Ho scritto un libro su Istanbul. Sono iscritta all’Ordine dei Giornalisti. Straniera.
Basta poco, qui, per essere dei terroristi.
A Sultanahmet, dall’altra parte della città, tutto tace, in un silenzio irreale. Questa è Istanbul.
Ma non mi piace, questa atmosfera indifferente. Forse perché ormai ci sono dentro fino al collo.
E in hotel, con gli occhi che ancora lacrimano, penso ai miei amici, alla loro lotta.
Penso a Nejat, che non voleva neanche venire. Mi sento in colpa. Spero stia bene.
Il giorno dopo lascio di nuovo Istanbul insieme a un pezzo di cuore, come sempre.
E finalmente, in chat, mi raggiunge Nejat.
È diventato un çapulcu. Mi scrive ubriaco di ribellione. Felice.
È stato in prima linea fino all’alba, fino al mattino. E, d’ora in poi, ci sarà. Sarà con loro, con gli attivisti.
A un certo punto Nejat sulla chat mi scrive: “La foto del Guardian! Quello sono io!”
Si riferisce a un link che ho appena condiviso.
“Quale, Nejat?” “La numero 5!”
Guardo meglio. È vero. È lui. È quel ragazzo piegato, fra i poliziotti. Quello che sta tossendo, coperto da un fazzoletto sul visto.
Mi racconta di come lo abbiano buttato a terra e di come sia stato salvato da un gruppo di ragazzi che lo hanno tirato via.
Non sono sorpresa. Il filo del destino che mi collega a Istanbul è sempre presente. Nulla è a caso, mai. Nejat doveva incontrarmi, nel negozio di fotografie. E scoprire la sua anima ribelle.
E io dovevo trovare quelle foto del Guardian, e scegliere proprio quelle fra milioni di foto pubblicate sul web.
Funzionano così, i legami sottili tra le cose e le persone, tra i destini degli universi che non conosciamo. E spero che il destino aiuti e protegga tutti quei “terroristi” che si stanno battendo per la democrazia. Inşallah.
Riflessioni sulle proteste di Taksim
Anche ieri sera hanno manifestato. E lo faranno di nuovo Lunedì.
Sono con loro, con gli attivisti. Sono con Görkem, Doğa, Ali, Goksel. Sono con tutti quei volti sconosciuti incontrati quei giorni, i giorni dell’occupazione di Gezi Park.
Ma ho altri amici, che supportano Erdoğan. Che mi inviano link e notizie per mostrarmi l’altra faccia di questo conflitto.
E io non mi tiro indietro. Discuto, dibatto, mantengo aperto il varco verso ogni dubbio.
Ma non posso sentirli chiamare çapulcu, chapullers, vandali. Protestare per la difesa di un’idea non è mai vandalismo. E’ modernità, civiltà. E’ accettazione della diversità.
Mi torna il mente il refrain con cui Berlusconi ha sfiancato i nostri giorni: “Comunisti”. Tutti, erano comunisti. E adesso Erdoğan fa la stessa, identica cosa. Se non lo sostieni diventi un capulcu, un vandalo. Il solo pensiero diverso che diventa nemico, che si trasforma in ostacolo da buttare giù. Che noia, sempre la solita minestra.
E allora va bene, sono una vandala anche io. Sono una vandala perché sostengo il rispetto, la diversità, la volontà di dire “no” quando non ci sta bene qualcosa. E, soprattutto, la possibilità di scendere in piazza senza essere menata, imprigionata, liquidata con un gas o un getto d’acqua, o addirittura ammazzata.
Intendiamoci bene, non è che la polizia nel resto del mondo sia tenera come un agnello. Versiamo ancora balsamo sulle ferite del G8, di quel lontano 2001 che pesa come piombo sul’anima, e tutti abbiamo davanti agli occhi le immagini degli agenti americani con i manganelli, che prendono a calci i dimostranti di Occupy Wall Street, delle cariche contro gli Indignados, del lancio di lacrimogeni contro i ribelli del Brasile. Per non parlare degli orrori di altre piazze che si sono incise nella memoria per sempre.
A Istanbul, però, in uno spazio breve come la memoria di un sogno la violenza è accelerata rovesciandosi addosso a vecchi, donne, bambini. Gente disarmata. Gente che al massimo agitava una bandiera.
Sì, mentre giravo a piazza Taksim ho visto un ragazzo con una pietra, una di quelle pietre con cui avevano costruito le barricate per impedire l’accesso alla piazza. Una pietra contro un bulldozer. Davide contro Golia.
Non era neanche protetto dall’elmetto e dalla maschera antigas. Se la polizia fosse arrivata, il suo piccolo, ridicolo sassolino non sarebbe riuscito neanche ad ammaccare una fiancata. Sarebbe rimbalzato sullo scudo di un poliziotto.
Se sono questi, i çapulcu. Se sono questi, i vandali. Se sono questi, allora, io sono una di loro.
Ma cerco, scavo, frugo perché mi sfugge qualcosa.
Perché so troppo bene che la realtà è sempre complessa, soltanto noi, con fare infantile, dividiamo i bianchi e i neri, e cataloghiamo le cose, così, come un archivio qualunque da mettere in ordine. E invece no, invece bisogna rovesciare i cassetti, cercare, confrontare.
Dietro ogni rivoluzione si agitano anime diverse, e diversi intenti.
Anche qui.
Dietro la mamma ecologista che protegge il suo parco, dietro il ragazzo che sente il fiato sul collo dell’Islam che potrebbe rovinargli la birra nel pub, dietro il ribelle di qualunque causa, purché ci si ribelli, ci sono sempre poteri occulti, nascosti.
Che, guarda caso, hanno quasi sempre a che fare con le banche e le finanze internazionali.
Di sicuro, un crollo turco fa bene a qualcuno. Così come l’agitazione del solito spettro “Islam contro Occidente”.
E perbacco ci si prova, ci si prova ovunque, ad arrivare alla grande battaglia, la madre di tutte le battaglie possibili.
Ci si prova anche qui.
Dunque io resto in attesa, leggo, ascolto, parlo con chi vive lì.
Mi arrivano notizie di attivisti pagati da banchieri e imprenditori, di conti in banca che hanno ricevuto versamenti internazionali.
Lo dice la stampa turca. Bene. Ma voglio le prove. Perché la stampa turca non è certo un modello di stampa sincera. Staremo a vedere.
Non escludo che ci siano forze nazionali e internazionali che stanno facendo il loro gioco. E’ sempre così, nella storia. E come sempre, pagano “gli innocenti”, quelli che ci mettono la vita e la faccia per un’idea, senza nessuna consapevolezza di ciò che si nasconde dietro le loro spalle.
Da un amico musulmano oggi ho ricevuto questo link
https://www.youtube.com/watch?v=ACyByaerJzQ
Ma, a fronte di questo, ricevo ogni giorno notizie di manifestazioni pacifiche, nate dalla voglia di organizzarsi per una democrazia più robusta, adulta, matura.
Non lo è ancora.
In Turchia, la democrazia vera deve ancora crescere, e camminare. E lo farà. Camminerà sulle idee, come accade a tutte le democrazie.
Spero solo che le gambe che adesso ne stanno portando in giro i primi vagiti non vengano falciate da una pallottola o, peggio ancora, da un autocarro della polizia.
Pudore, rispetto, dignità
Pudore, rispetto, dignità. Dobbiamo batterci per recuperare queste parole che, da noi, sono state svuotate di significato. Stanno bene insieme, si legano perfettamente. Ragioniamoci. In una società di cose esibite in piazza, mercificate, in cui perfno i sentimenti diventano consumo invadente, il pudore retrocede, scompare, si rintana in un cantuccio dell'anima. E le tante battaglie, anche femminili, per la diginità, una volta raggiunte sono rotolate via nello sfacelo di un modernissimo tempo in cui volano insulti, prepotenze, modi di fare da camionista, disprezzo per l'altro e competizione. Pudore, rispetto, dignità. Lo pretendiamo, ma siamo in primi a lamentare questa assenza. Coprirsi, non tanto con un velo, come una donna islamica, ma come ritrovato senso del non eccesso, della voglia di tenere l'ego al guinzaglio che freme e abbaia percné tutti sappiano tutto di noi, resituisce uno spazio privato, una "stanza tutta per sè" che abbiamo invece trasformato in un dormitorio comune, oggi.
Istanbul
Istanbul è un mosaico, il più bello dei mosaici possibili.
Difficile consigliare luoghi perché per ognuno è bello smarrirsi, e trovare da solo i propri luoghi.
Non sono gli stessi per tutti noi, mai.
C’è chi ama la vita globalizzata di Taksim, con le sue noti folli, piene di musica e birra, e chi invece si dondola nelle acque del Bosforo a bordo di un traghetto.
Altri invece si perdono nella parte asiatica, fra moschee e donne con il velo.
Per questo Istanbul è un viaggio nel viaggio, per la sua capacità di aprirsi su mondi diversi, vicini e allo stesso tempo distanti.
Il consiglio di viaggio migliore è quello di lasciarsi portare dal vento.
E’ il più grande conoscitore di segreti, il vento.
Lui sa di cosa abbiamo bisogno. E il vento di Istanbul è davvero un vento particolare.
Il vero viaggio
Un vero viaggio è sempre un'apertura verso il dubbio, verso ciò che non conosciamo. Non è mai la conferma di ciò che sappiamo.
La bambina dei fiori rossi
24 giugno 2013
No, non erano tulipani. Erano fiori rossi. E lei li offriva ai passanti. Lei, la bimba con gli occhi grandi che ingoiavano il mondo. Me la ricordo, nei giorni di Gezi Park. La penso spesso. Penso al suo sorriso bello, ai suoi modi piccini e graziosi, ai fiori staccati con delicatezza dal gambo e regalati ai passanti.
E' rimasta uno dei simboli, per me, di quei giorni. Così piccola, ancora ignara del dolore dei grandi, ancora salva da quelle innocenze perdute che tratteniamo, dentro, come un rimpianto.
Sorrideva, e offriva fiori, mentre intorno la fiamma della rivolta incendiava uomini e donne, anziani, ragazzi.
Lei stava lì, sul prato. Non sapeva che da un momento all'altro sarebbe potuta arrivare la polizia. E allora sarebbero stati massacri, feriti, gas, getti d'acqua urticanti.
Quel giorno la polizia non arrivò. E lei fu salva.
Ma non so che ne è stato di lei.
Ricordo il suo sorrisone meraviglioso. Spero che stia bene. E che le sue manine di bimba continuino a regalare fiori e speranze.
Il più bello dei mari è quello che non navigammo
21 giugno 2013
"Il più bello dei mari è quello che non navigammo", scriveva il poeta turco Hikmet.
Il più bello dei mari, per me, è anche quello di Istanbul. Il mare che navigo con l'immaginazione, il mare nel quale mi immergo, muoioe rinasco insieme alle onde, mi perdo.
Amo Istanbul e il suo mare, con le imbarcazioni che, osservate a distanza, sembrano quadri. Somigliano a un olio dipinto su tela.
Mi infondono un senso di pace, una libertà che si allarga dentro e mi fa sconfinare agli estremi del mondo.
Chi va a Istanbul dovrebbe arrampicarsi sulle terrazze e, da lassù, navigare verso orizzonti invisibili.
Mentre, il lontananza, si alza il canto del muezzin. E mi sento in pace.
In memoria di Mehmet
Questi sono i ragazzi morti. Le foto appese su un barile. Scritte che non capisco. Quella sera, a Gezi Park, mi ha colpito soprattutto lo sguardo di Mehmet. E' serio, quasi ostile alla macchina fotografica. Come se avesse avuto un presagio, prima dello scatto. Come se la morte avesso soffiato, per un istante, sulla sua vita. Come se la rigidità dello sguardo annunciasse un'ombra. Ci incrociamo con gli sguardi. Ma lui non mi vede, non vede più nulla di questo mondo. Io ancora sì, ancora sono qui, in mezzo ai ribelli, e vedo la loro voglia di vivere. E tu non vedrai più nulla, non vedrai le cose belle ma non vedrai neppure gli orrori, Mehmet. E un giorno, chissà, altrove, forse ti riconoscerò.
Turchia, un po' di chiarezza
Questi giorni leggo giudizi facili sui fatti turchi, che non tengono conto della realtà complessa.
Condanno Erdogan e la brutalità della sua polizia, ma invito a non cadere nella trappola dell'Islam cattivo contro i democratici "buoni".
Erdogan ha saputo rilanciare l'economia turca con un governo forte, sì, che finora però non si era mai spinto a tanto.
E, in fondo, faceva comodo a tutti, il benessere economico dei dieci anni turchi. Certo, pian piano l'Islam è diventato più ingombrante, mano a mano che il consenso di Erdogan aumentava insieme a una visione sempre meno democratica e più personalista. Ma non si può parlare di ditattura del decennio di Erdogan bensì di un governo autoritario che solo negli ultimi tempi ha iniziato a virare verso personalismi pericolosi che hanno condotto alla ferita di Gezi Park.
Non è l'Islam, quello di Erdogan, ma uno strano miscuglio di Islam e capitalismo occidentale.
Si torna ai fondamenti islamici, ma si applicano le regole occidentali dello sviluppo e del consumo, molto lontane dalla "povertà" a cui invita la religione. L'Islam è severo quanto il cristianesimo, verso l'accumulod i soldi e ricchezze.
Quindi si tratta di un Islam "corretto", come da noi sono state "corrette" le tensioni cristiane.
Poi, quando si inneggia ad Ataturk, non scordiamo che, se mai ci fu un vero ditattore, fu proprio lui. Le sue proibizioni superarono di gran lunga quelle di Erdogan.
E allora propongo di riflettere su come sia il laicismo che la religione vadano liberati dal vizio di autoritarismi che poco c'entrano con la visione dell'uomo libero.
La Turchia è un paese passato da Ataturk a Erdogan, due facce estreme, una più, una meno, una soltanto negli ultimi anni, di uno stesso problema: una tolleranza reale verso la diversità.
E allora non dimentichiamolo, mentre, giustamente, condanniamo l'orrore di questi giorni.
Non dimentichiamo il modello turco che negli ultimi dieci anni è stato comunque accettato da tutti.
E non dimentichiamo che, finora, molti hanno tollerato le virate filoislamiche perché garantivano comunque benessere per tutti.
Detto questo, io sono con loro, con i manifestanti.
Ma non voglio vedere analisi raffazzonate che non tengono conto del modello turco, e del suo passato.
In attesa, nel parco
13 giugno 2013
Non riesco a dormire. I miei amici in Turchia resistono, manifestano. ci sentiamo via chat. Sono preoccupata. gezi park è pericolosa. non è come piazza taksim, non ci sono vie di fuga, lì. Nel ventre buio del parco, se la polizia attacca, si muore. non c'è scampo. E' l'unico momento in cui, il 2 giugno, ho avuto paura. ho pensato, in mezzo alla calca festosa, che se la polizia avesse attaccato allora il parco sarebbe diventato un inferno. un pensiero che ha accelerato il cuore. E ora il cuore si ferma, sospeso, sul crinale di un attimo fra cui si decide la vita e la morte. loro non si fermeranno. lo so. E neppure Erdogan lo farà, lo temo. non dormo. ho paura. Sono lì, con il cervello, con il cuore, con la pelle. Con tutta l'anima mia.
I giorni di Gezi Park
8 giugno 2013
C'ero, nei giorni della polizia e dei lacrimogeni. C'ero e ho visto con i miei occhi. Ho visto ragazzi manifestare in pace, riuniti a Taksim, a Istiklal e a Gezi Park, per proteggere quegli alberi ma sopratuto per proteggere la loro libertà di espressione.
C'ero e ho visto uomini e donne, ragazzi e ragazze, tutti uniti da un filo comune, che si chiama solidarietà. Istanbul, la mia Istanbul, sta cambiando. Non so come finirà, ma so che è appena iniziata.
"All'inizio fu un albero", recita un foglietto appeso su uno dei tronchi del parco.
E quell'albero è diventato una foresta, e una foresta è diventata una città, e una città è diventata un pianeta intero.
Non ho visto violenza, ma solo tanta voglia di esprimersi, manifestare, come accade in ogni paese democratico.
Quando la polizia non attacca, Taksim è un luogo di festa. Si canta, si balla, si mangia. Ci si ritrova insieme sotto uno scopo comune.
Liquidare la faccenda come scontro tra musulmani e laici sarebbe pericoloso, e superficiale.
La storia è molto più complessa, come complessa è l'anima turca.
Di sicuro, soffia un vento ribelle. Ma è un vento buono, come il vento di Istanbul.
Non ho avuto paura mai, neanche di notte, neanche nel centro del parco, in mezzo alla folla.
Molti dormivano lì con le tende, per proteggere il verde e scongiurare il pericolo di uno shopping center.
Facevano i turni, dalla mattina alla sera.
Sono ancora lì.
Ho amici cari fra i manifestanti.
Amici che studiano, fanno i giornalisti, lavorano al cinema.
Fanno parte dell'anima laica, figlia di Ataturk, che vuole continuare a essere tale.
Non so come finirà ma so che sono giorni importanti, decisivi, in cui il popolo turco scrive la storia.
E spero che sia una storia bella, con un lieto fine.
Nella piazza di Eminonu
16 maggio 2013
La piazza di Eminonu è un posto magnifico per assaporare le atmosfere di Istanbul. Si incrociano persone di ogni tipo, che vanno e vengono, come le onde del mare.
Donne velate, uomini con i baracchini ambulanti, che vendono simit, gli anelli di pane. Mercanti, turisti, visitatori. Dalla Moschea Nuova entrano ed escono persone, ogni giorno, ogni momento.
Il viaggio come ritorno
21 aprile 2013
A volte il viaggio non è una partenza ma un ritorno. Si torna a noi stessi, si torna nei luoghi che ci appartengono. Sono i misteriosi richiami di geografie con le quali condividiamo un'affinità elettiva che le parole, a volte, non sanno dire.
Istanbul è una di queste. Istanbul, la Città delle città. La mia città.
Fra poco è giugno. E a giugno, sul Bosforo, il mare si tinge dei colori più belli. A giugno i traghetti saplano anche di notte e girano fra le acque. scortati dalle stelle. Com'è bella, Istanbul, nelle noti d'estate. Disarma la ragione e lascia vivere solo le emozioni a cavallo del tempo, in un tempo che non è più tempo, seguito dai minareti che indicano la via per il cielo.
Fra poco, a giugno, salperò su uno di quei traghetti. E, tra l'Asia e l'Europa, mi sentirò a casa.
Istanbul, fra me e te
E così sono tornata a cercarti. Come si fa quando ti rimane in bocca un sapore sospeso, incompiuto.
Ho capito che tu sei un po’ come me, Istanbul. Mi somigli. Sei terra di frontiera, incrocio di venti, di culture, di tradizioni. Sei in un bivio perenne, sempre divisa fra un oriente mai dimenticato e un occidente adorato, di cui sei invaghita per la vita bella e le promesse di lusso e divertimento e luccichii. Eppure non riesci a scordarti il silenzio bello dei tuoi vicoli antichi, con le donne immerse nei loro veli e il kajal che disegna il mistero di due occhi che sono porte di terra e di cielo.
Sei un crocevia di contraddizioni, sei fatta di opposti, appartieni a tutti e a nessuno, un po’ come me. Sempre sul bilico, sempre su un respiro portato via dal vento. Non sei morbida e accogliente come le nostre terre, addolcite da colline che si inchinano in mare, boschi profumati e romantici borghi che sembrano scivolati giù dalle nuvole. Sei invece piuttosto brulla nell’anima, così come lo è la tua terra. Il romanticismo non ti si addice, preferisci il mistero di quei minareti che salutano il mare, preferisci nasconderti, svelarti a poco a poco, come in una danza dei veli, e giri giri giri come un derviscio scombinando bussole e mappe; la tua geografia cambia e si sposta sempre più in là, attraversa, persistente, la tradizione, si riposa nei vapori dell’hamam dove ogni pensiero diventa liquido mentre il cuore della città diventa il cuore di chi si appoggia nelle tue pietre di Acqua e di Fuoco, e il battito diventa lentezza che scioglie il tempo, e le donne si lavano e si massaggiano fra loro, fra i sorrisi di certe confidenze femminili che nessun uomo saprà mai penetrare, guarda come sono potenti anche se il mondo, là fuori, le pensa in condizione inferiore; e invece è lì, negli hamam, che senti tutta la forza del Femminile che custodisce il segreto sapiente dell’Acqua e del Fuoco, e nelle abluzioni divise di uomini e donne giace un’arcana sapienza. Ma come sembriamo ridicoli, noi occidentali, con le nostre arroganze sulla libertà e l’individualismo, e la parità estrema dei sessi che alla fine hanno fatto diventare maschi le femmine e femmine i maschi. Che dignità nelle tue donne velate, che convivono con quelle “moderne”, quelle emancipate, che la sera escono e si truccano e hanno i vestiti all’ultima moda, e sorridono all’uomo piegando la testa all’indietro, mentre i capelli tinti di biondo diventano onde che inseguono l’ultima marea. No, la tua geografia è sempre mobile, vive in una terra di mezzo, mai compiuta verso una direzione precisa.
I silenzi dei tuoi quartieri tradizionali mi incantano, mi seducono, è lì che mi pare quasi di afferrarti e tenerti accanto nel cuore, perché insieme, noi due, sappiamo ammirare il gusto antico che lascia il profumo sottile di origini in cui l’anima si specchia e si riconosce, ma poi scappi, fuggi via e mi lasci la mano che ti teneva vicina, fuggi a cercare le notti scombussolate, le notti ebbre di Taxim, dei quartieri occidentali dove si canta si beve e si gira fino all’alba.