Turchia: Erdogan contro Twitter
C’erano una volta degli uccellini che volavano liberi in cielo. Saltellavano da un albero all’altro, viravano verso le nuvole, parlottavano tra loro, socializzavano. Si scambiavano informazioni. Ma gli uccellini, quando sono troppo agili e indisciplinati, diventano pericolosi. Perché sanno fare rete (appunto) e librarsi in volo, tutti insieme, disegnando le geometrie più incredibili.
Ed è così che il potere, in Turchia, ha tagliato le ali agli uccellini di Twitter. Erdoğan lo ha fatto, alla fine. Ha bloccato twitter. Lo ha fatto stanotte, davanti a una Turchia allibita, stralunata. E una comunità internazionale preoccupata. Lo ha fatto ricorrendo alle recenti leggi approvate, quelle che a febbraio hanno chiamato in piazza i cittadini.
E lo ha fatto perché, alla vigilia di elezioni che si presentano decisive, non vuole rumori intorno. E fanno troppo rumore, quei cinguettii che dai giorni di Gezi Park attraversano il paese, lo informano, postano video, fotografie, dirette live di ogni protesta, commentano le malefatte del governo, lo prendono in giro, concordano raduni, permettono al mondo intero di sapere cosa succede.
L’hashtag è diventato un incubo che turba i sonni di Erdoğan . #DirenGeziParkı, #Turkey, #Taksim, #Istanbul….e tanti, tantissimi altri, a volte creati ad hoc per argomenti particolari. Ma, soprattutto, ci sono video e registrazioni “pericolose” che mostrano le prove del coinvolgimento di Erdoğan negli ultimi scandali di corruzione che hanno travolto il paese (e il partito di maggiornaza, l'Akp, soprattutto). E nuove prove potrebbero “sfuggire” dalle mani sicure del governo e svolazzare qua e là.
“Twitter è una minaccia per la sicurezza”, ha affermato il premier. Sì. La sua. Già dai tempi di Gezi tuonava contro questo aggeggio infernale che ha il potere di informare le persone aggirando le potenti pressioni sui media. “Sradicheremo twitter. Me ne frego di quello che potrà dire la comunità internazionale” ha detto Erdoğan (come riporta anche l'Hurryiet Daily News) durante un comizio elettorale a Bursa. Detto, fatto. Nella notte l’autorità delle telecomunicazioni ha bloccato l’accesso a twitter, grazie alla nuova “legge bavaglio” che le conferisce poteri straordinari. La stessa autorità ha spiegato che la piattaforma di microblogging è stata bloccata su volere del tribunale, dopo le denunce di alcuni cittadini per aperta violazione della privacy. Una "copertura" traballante, a tratti ridicola. Del resto lo stesso presidente della Repubblica Abdullah Gul, che ha definito “inaccettabile” la chiusura “delle piattaforme dei social media”.
E così, tra polemiche e proteste, stamattina la Turchia si è svegliata senza cinguettii. 10 milioni di utilizzatori non hanno accesso al sito.
Un fatto senza precedenti, che sta indignando i cittadini turchi e la comunità internazionale. Si stanno già studiando sistemi per aggirare il blocco, mentre per ora non rimane, ufficialmente, che usare il sistema di messaggi delle reti cellulari. Tuttavia, il popolo di twitter non è facile da abbattere, e ci sono già i mezzi, sembra, per continuare con modi alternativi.
Nel frattempo, il mondo si interroga. Dov’è finita la Turchia che chiedeva di entrare in Europa? Quella che vantava una democrazia?
Con questa mossa, Erdoğan sembra dare ragione a tutti i suoi detrattori che lo insultano definendolo “sultano”, “fascista” e “dittatore”.
In queste ore su facebook si condividono vignette, battute sarcastiche, video. Un disegno mostra l’uccellino di Twitter con tanto di baffetti e ciuffetto alla Hitler, mentre alle sue spalle campeggia la scritta “Twitler”. Lo sappiamo, il popolo della “resistenza” fin dai tempi di Gezi usa le armi dell’ironia. Ma è arrabbiato, terribilmente arrabbiato. I commenti si scatenano, si pianificano nuovi raduni (Erdoğan sa benissimo che con questo gioco sta di nuovo trascinando la gente in piazza, e lo sta usando a suo uso e consumo. La sua è una strategia di alta tensione.)
Non saranno facili, i prossimi giorni.
L’uso dei social è ormai entrato nella vita di tutti, e il divieto viene vissuto come una vera e propria minaccia alla libertà di espressione. Di fatto, lo è. Non si possono eliminare le voci della dissidenza che non rappresentano soltanto l’opposizione, bensì il gioco, il divertimento, lo scambio, l’informazione. Sono le reti che oggi connettono i cittadini di tutto il mondo. Erdoğan non toglie twitter alla Turchia soltanto, lo toglie alla comunità internazionale.
I turchi, come tutti i cittadini del pianeta, hanno oggi relazioni globali, condividono in rete tutto quello che vogliono valicando ogni confine geografico. E’ questa la magia della connessione, la meraviglia del web. Queste voci, queste interazioni che sono linfa vitale per la comunità, ogni comunità, non possono essere minacciate dalla prepotenza di un governo che ha paura di perdere poteri e poltrone, che teme si scopra la sua corruzione.
In più, Erdoğan non sta rendendo un buon servizio all’Islam di cui dice di essere così devoto, consegnandolo ai suoi detrattori con l’ennesima prova di un sistema retrivo, coercitivo, repressivo, nemico delle libertà e del progresso. Mentre il mondo, turbato, osserva la virata “dittatoriale” della Turchia, i cittadini si sfogano su Facebook, scampato, per ora, alla censura. Quale sarà la prossima mossa?
Istanbul, Gezi Park: La resistenza di Sevim
Sevim mi viene incontro. Sorride. Mi prende subito sottobraccio, con un gesto affettuoso, mentre imbocchiamo Istiklal Caddesi, dirette verso un caffè. Non ci siamo mai viste prima. Ma ci siamo riconosciute subito.
Lei ha un sorriso largo che le accende tutta la faccia. Lo stesso sorriso che sul suo profilo facebook regala agli amici attraverso una serie di foto che alterna a una quotidiana informazione, in inglese, sulle proteste di Istanbul. Agguerrita, ribelle, Sevim non si nasconde, non ha paura. Infatti decide di metterci la faccia, in questa intervista, e di non ricorrere a nomi di fantasia. Ammiro il coraggio di questa giovane insegnante che sogna un mondo migliore.
Sei un’attivista. Come è iniziata la tua “resistenza”?
Come democratica, e socialista, ho realizzato che le cose cambiavano negli anni, nella mia nazione. All’inizio delle proteste di Gezi ero all’estero, ma guardavo cosa accadeva. Appena tornata a Istanbul, il giorno dopo il mio arrivo sono andata a Gezi Park per supportare pacificamente la protesta, mi sono unita ai gruppi. Avevamo tende, chitarre, libri, e discutevamo di spazi pubblici e del verde rimasto. Volevano distruggere quegli alberi vecchi per costruire un mall, dopo che il governo stava già distruggendo molti spazi verdi in tutta la Turchia. Non hanno a cuore il futuro ambientale del paese.
Memorie, eventi, episodi che ti hanno cambiato…
La resistenza è iniziata in modo pacifico, finché i poliziotti non hanno bruciato le tende! Hanno attaccato con gas e spray al peperoncino. Il 31 maggio, l’1 e il 2 giugno ci sono state battaglie così dure...molti feriti, molti arresti. Ci hanno cacciato dal parco in modo così brutale. Ho visto molti feriti durante la lotta. Anche io sono stata ferita più volte. Ci siamo contesi Gezi Park, con la polizia. In quel parco ho vissuto i giorni più belli ella mia vita. Sono socialista e abbiamo davvero condiviso molte cose: in quel parco le abbiamo messe in comune. Abbiamo condiviso il nostro denaro, il cibo e l’amore. C’era una grande solidarietà. Quando la polizia non attaccava cantavamo, danzavamo, cucinavamo… giorni incredibili che non scorderò mai.
La polizia turca. Come agisce durante una protesta?
Attaccano duramente, con il gas al peperoncino, i cannoni ad acqua. Una ragazza è stata ferita alla testa con un proiettile di gomma. La polizia è sempre stata brutale, ma dopo Gezi ha perso il controllo. Il governo la lodava, la sosteneva, ordinava di attaccare ancora più duramente. Erdoğan stesso ha detto di aver dato ordini alla polizia in questa direzione. Ma noi vogliamo vincere questa lotta per la libertà!
Che accade ora, in Turchia?
La lotta prosegue! Non come a giugno, ma la gente non si arrende, non si arrenderà mai. Il governo cerca di spaventarci con le sue leggi. Si viene arrestati così facilmente…La polizia attacca. Usa sostanze chimiche. Dovremmo organizzarci meglio. Molti si uniscono alla protesta ma poi arrivano i cannoni ad acqua, i proiettili di gomma. La polizia blocca ogni accesso alle aree della protesta…La gente lotta per i diritti. Le strade appartengono a noi. Sono diventate le nostre aree di lotta.
Il web e la censura. Hai preso parte alle proteste.
Sì, la censura è davvero pericolosa per noi perché durante la resistenza abbiamo usato i social media per comunicare fra noi. Dato che il governo nasconde le notizie, gli attivisti si comportano da giornalisti. La gente lotta per i propri diritti ma allo stesso tempo mostra la mondo che accade. Dopo lo scandalo della corruzione il governo ha iniziato ad avere ancora più paura. Nasconde tutto con la censura. Erdoğan dice che chi non vuole le leggi anticensura guarda i video porno sul web…. l’8 febbraio c’è stata una grande protesta perché la gente è stanca della censura. Non vogliamo che limitino la nostra libertà. Se non reagiamo, faranno quello che vogliono: ancora più facilmente. Ogni volta che c’è una protesta usa subito gli idranti che lanciano acqua mescolata a una sostanza chimica e gas lacrimogeni. E i proiettili di gomma. Così spezzano la rivolta. Noi facciamo quello che possiamo. Non possiamo usare maschere antigas perchè se la polizia ci ferma ci arresta. E non è facile contrastare armi chimiche senza maschere antigas…
Non hai paura che ti prendano? Rischi il tuo lavoro per un’idea…
No, non ho mai paura! Con la paura, non c’è vittoria! Non posso vincere. Il rischio di perdita di lavoro è nulla rispetto al rischio di perdere la vita. In una società ingiusta, corriamo sempre questo rischio. Alcuni hanno perso il lavoro perché hanno partecipato alla protesta. Io correrò sempre questo rischio, non mi importa.
Usi facebook per diffondere le tue idee contro il governo. Ma che succede se controllano il tuo profilo?
Beh se lo controllano mi arrestano…Lo hanno fatto anche con altri. Ora hanno in mano tutte le informazioni, e faranno ciò ch vogliono. Alcuni ora sono spaventati e non parlano più di governo e proteste. Ma io voglio lottare per la libertà.
Cosa pensi della democrazia turca?
Se sei contro il governo, non c’è giustizia per te. Se combatti per I tuoi diritti puoi ritrovarti in prigione. Dov’è la democrazia? I tribunal dovrebbero essere liberi e invece sono sotto il controllo del governo.
Pensi che le cose cambieranno?
Penso che siano già cambiate. La gente è cambiata. La gente ha imparato a lottare contro l’ingiustizia. Ha imparato la resistenza, la solidarietà. Questo è molto importante. I cittadini non staranno in silenzio. Lotteranno per i loro diritti. Con la solidarietà, vinceremo.
Quando ci salutiamo, Sevim si allontana nella folla del sabato pomeriggio. La seguo con lo sguardo finché non scompare. Un piccolo puntino nero, pieno di speranza, inghiottito dalla ressa di persone che attraversano Istiklal Caddesi con le loro buste dello shopping e i caffè Starbucks. Ma di notte Istiklal, da un momento all’altro, si trasforma nella strada della lotta, della protesta, mentre la movida lascia spazio ai gas lacrimogeni. E Sevim, sicuramente, ogni volta, si trova qui.
La Turchia fra piazze scontri e Tangentopoli
L'intervista radiofonica rilasciata a Radio Onda d'Urto:
Dopo i cortei dei giorni scorsi, con due milioni di persone – secondo i media indipendenti della Turchia– in piazza contro la violenza poliziesca del premier Erdogan, per iniziativa di tutti i partiti d’opposizione il parlamento della Turchia terrà una seduta straordinaria il 19 marzo per “prendere conoscenza delle richieste di autorizzazione a procedere presentate dai magistrati anti-corruzione contro quattro ex ministri del governo Akp”.
I pm responsabili delle indagini che il 17 dicembre hanno portato all’esplosione della “tangentopoli del Bosforo”, poi rimossi per decisione del governo, hanno chiesto la revoca delle immunità degli allora ministri dell’economia, degli interni, dell’ambiente e degli affari europei, accusati di avere ricevuto tangenti.
Intanto Erdogan torna a provocare: il premier ha invitato in un comizio i suoi sostenitori a boicottare i negozi di proprietà dell’imprenditore Cem Boyner, che nei giorni scorsi aveva chiesto al suo personale di accogliere i manifestanti che commemoravano il 15enne Berkin Elvan, simbolo della repressione di Gezi Park, morto martedi dopo nove mesi di coma. Non solo: Erdogan ha accusato Berkin di essere stato membro di un “gruppo terrorista”.
Intanto è salito a due il bilancio dei morti dei cortei di questa settimana, segno della mano pesante decisa dall’Akp, alla vigilia di un fondamentale turno amministrativo, quello del 30 marzo, in cui il sultano di Istanbul si gioca tanto, se non tutto.
Ne abbiamo parlato con Francesca Pacini, autrice di “La mia Istanbul” e “Ritorno a Gezi Park” oltre che collaboratrice di osservatorioiraq.it.
http://www.radiondadurto.org/2014/03/14/turchia-erdogan-tra-piazze-insorgenti-tangentopoli-ed-amministrative/
Le vittime di Gezi Park. Berkin Elvan
“Mamma, non preoccuparti, esco io a prendere il pane. Riesco a correre meglio di te, eviterò i poliziotti e i gas lacrimogeni”. Prima di scomparire dietro la porta, i grandi occhi scuri del piccolo Berkin , occhi enormi, spalancati su quel faccino da quattordicenne incerto tra l’infanzia e l’età adulta, hanno guardato sua madre per l’ultima volta. Non l’avrebbe vista mai più. Non sarebbe mai più tornato a casa, Berkin.
Era il 16 giugno 2013, e gli scontri di Gezi Park erano di nuovo all’apice. Anche quel giorno,nel quartiere di Okmeydanı, la polizia attaccava i manifestanti.
Ma non era un manifestante, lui. Era solo un ragazzino, uscito a prendere un pezzo di pane per la sua famiglia. È stato colpito alla testa da un candelotto di gas lacrimogeno lanciato a distanza ravvicinata. Da quel momento, è entrato in coma e non ha aperto gli occhi mai più.
L’ultima cosa che ha visto, nella sua piccola vita spezzata, è stata quella folla, quel giorno. Uomini, donne, ragazzi che resistevano, combattevano, mentre la polizia infieriva con la solita violenza. Frammenti di un mondo adulto che non avrebbe raggiunto mai, che sarebbe rimasto per sempre un mistero. Non diventerà grande, Berkin. Dopo 269 giorni di coma, è morto.
“Abbiamo perso nostro figlio Berkin Elvan alle 7.00 del mattino”. Il messaggio dei genitori di Berkin ha fatto rapidamente il giro dei social, quegli stessi social che Erdoğan minaccia di chiudere e che invece rappresentano il ponte, il collante, il tam tam di tutti i cittadini indignati che dal maggio scorso si informano, si scambiano messaggi, organizzano proteste.
È l’ottava vittima di Gezi Park. E non è una vittima qualunque. È il simbolo dell’innocenza, è il piccolo agnello sacrificale, condannato, in qualche modo, per i mali di un mondo che non gli appartiene, in cui non ha ancora fatto un ingresso compiuto.
Sembra ancora un bambino, nelle foto che lo ritraggono e che stanno facendo, ancora una volta, il giro del mondo.
Berkin che va a scuola, Berkin che gioca, Berkin che sorride, Berkin con il cappellino da baseball. Berkin uguale a tutti i ragazzini del mondo. Berkin che non sarà mai grande.
I negozi, a Istanbul, mettono davanti alla porta uno sfilatino di pane, simbolo, anche questo, della sua innocenza. Berkin è morto per un pezzo di pane. È morto per fare un favore alla mamma. Ecco che esplode, di nuovo, la memoria dell’assurda follia dei giorni di Gezi Park.
Questa rabbia scuote la Turchia in un momento già difficile, critico, a pochi passi dalle elezioni amministrative in una Istanbul arrabbiata che non molla, non dimentica, non perdona.
Quel ragazzino è nella mente e nel cuore di tutti, lo è stato sempre, in questi 269, lunghissimi giorni di attesa in cui Berkin è rimasto sospeso tra la vita e la morte. Poi, la sospensione è terminata ed è arrivata la morte.
Era il 5 gennaio quando ha compiuto 15 anni, li ha compiuti così, in un letto di ospedale, con una torta preparata dalla mamma. L’ultima torta, per l’ultimo compleanno. Fuori dall’ospedale, palloncini e auguri scritti dai tanti cittadini che non hanno mai dimenticato quel piccoletto finito per caso nel posto sbagliato il giorno sbagliato.
Quante volte deve aver rivissuto quel momento, sua madre. Il momento in cui lui decide di andare al posto suo, decide di uscire per comprare quel pane che non mangerà mai.
Quante volte deve aver desiderato morire al posto del figlio perché una madre sceglie sempre, se può, di andarsene lei. Ma non siamo noi a decidere, purtroppo. Così Berkin è morto, e lei invece è viva. E ha intenzione di trovare i colpevoli. Ma ce n’è uno che li riassume tutti, per lei.
“Non è Allah ad aver preso mio figlio, ma è Tayyip Erdoğan”, dice. Impossibile non pensare agli encomi rivolti dal premier, quei giorni, alla polizia e al suo “eroico” lavoro malgrado le vittime, i feriti, la repressione brutale.
#BerkinElvanÖlümsüzdür , Berkin Elvan è immortale. L’hashtag si popola velocemente di memorie, ricordi, espressioni di rabbia. Manifestazioni, scontri, marce e proteste ovunque.
Questo nuovo, ennesimo morto pesa moltissimo sulla Turchia. Pesa molto di più dei 16 kilogrammi raggiunti, in una sola settimana, dal corpicino del piccolo Berkin, precipitato dai suoi 45 kilogrammi a quel peso di piccola piuma in un logoramento crescente che ha sfinito la sua forza vitale e si è mangiato via la sua vita.
Un film famoso, e bellissimo, diceva che 21 grammi sono il peso che si perde esalando l’ultimo respiro. Il peso dell’anima, forse.
Una metafora che, nel giorno malinconico e struggente della morte di Berkin, fa pensare invece al piombo di un governo pesantissimo, che pesa ogni giorno di più, macchiato da corruzione, intolleranze, decisioni arbitrarie e coperture.
I 16 kilogrammi di Berkin, con la loro apparente leggerezza, in realtà pesano molto e oggi fanno precipitare la bilancia della giustizia tutta dalla sua parte; sull’altro piatto, Erdoğan, la polizia, uno stato corrotto e sempre più dispotico.
Che oggi fa i conti con un lutto nazionale che sta scatenando e scatenerà nuove proteste. I cittadini sono già scesi in piazza, ovunque, nelle città turche.
La polizia reagisce come al solito, la situazione è tesissima. L’onda della morte di Berkin sale, sale fino dalle prime ore della notizia ed è destinata a crescere.
Il destino è beffardo. Dopo moltissimi mesi il piccolo Berkin se ne va proprio alla vigilia di queste elezioni. E la sua scomparsa lascia una traccia pesantissima in giorni delicati, incrinati dagli scandali, resi fragili dall’evidenza di crimini e coperture.
Povero Erdoğan, sembra quasi una di quelle tragedie shakespeariane in cui il tragico destino si compie nel momento in cui ci si illude di averlo scansato.
Poteva aspettare, Berkin. E invece se ne è andato in un giorno di marzo, un giorno che si allunga, in tutta la Turchia, in mezzo alle proteste, attendendo la sera, e poi notte che vedrà in piazza nuovi scontri, nuova violenza, e una nuova resistenza.
Già fuori dall’ospedale la polizia è ricorsa all’uso spropositato di gas. Raduni nelle università, nelle strade, nei quartieri. La gente si raggruppa ovunque. E la violenza della polizia, in questo momento, è ancora più detestata.
Già, perché i colpevoli di questo omicidio sono stati protetti. I responsabili sono ancora al loro posto. Troppe persone, in Turchia, sono ancora al loro posto. Nella polizia, nelle istituzioni.
Oggi il responsabile della morte di Berkin è, per tutti, il governo.
Questi mesi ci sono state diverse manifestazioni per ricordare il piccolo Berkin in coma. Manifestazioni puntualmente represse dalla polizia. Si sperava, si pregava, si attendeva. Ora, non c’è più nulla da attendere.
È il momento del lutto, ma anche della rabbia. Una rabbia che divampa sui social e approda rapidamente nelle strade. La giovane, acerba anima di Berkin è volata via ma ha lasciato un segno preciso.
Il suo testimone è stato raccolto dai cittadini, e adesso cammina sulle gambe di uomini, donne e ragazze che stanno marciando in protesta, in tutta la Turchia, per raccontare tutta la loro voglia di giustizia in un paese in cui si muore così, per un piccolo pezzo di pane destinato a una colazione mai fatta, un paese in cui una polizia assassina colpisce e scompare dietro i poteri, un paese che tenta di imbavagliare le libere voci della resistenza in nome di una morale che diserta per prima ogni parvenza di moralità, un paese che usa il nome di Allah per poteri personali che finiscono nelle solite logiche politico-imprenditoriali.
Un paese che, ora, deve fare i conti con questo ennesimo morto sulla coscienza. Un morto che si somma alle altre vittime di Gezi Park.
I 16, miseri kilogrammi di Berkin sono diventati all’improvviso pesanti come macigni. Perché un’anima può pesare poco mentre vola via, ma la sua memoria, qui sulla terra, riesce a tracciare solchi indelebili. Difficili, veramente difficili da cancellare.
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